I versi inquieti di Morasso

Se le splendide prose de “Il mondo senza Benjamin” (Moretti&Vitali, 2014) hanno segnato un anniversario importante, i cinquant’anni di Massimo Morasso – saggista, traduttore, critico letterario e d’arte -, questa sua recente silloge poetica “L’opera in rosso” (Passigli poesia, 2016) si configura come una nuova caccia spirituale. “La caccia spirituale” è infatti il titolo dell’opera precedente (Jaka Book 2012), un ripercorrere convinto, ineludibile dell’esercizio alla macrothimia, al pensare in grande. Solo in solitudine e silenzio si affina l’orecchio del cuore per addensarsi intorno alla propria energia potenziale, per partorire parole, poche, frutto di selezione e scavo impietosi, capaci di svelare e ri-velare, “una sassata tirata all’apparenza” dice bene Giancarlo Pontiggia nella presentazione.

Tornano testi dedicati a Genova, città universo dove sono piantate le radici di Morasso e di altri poeti rabdomanti, dove bellezza e sofferenza crescono di pari passo, spesso in direzioni opposte: Cos’ero, allora?/ perché/ iniziò quest’ansia di scavare/ in me, ma in quale/ direzione?/ Scendendo verso il centro/ di Genova e del bimbo che vi si inoltrava/ insieme alla sua mamma…/ un occhio pieno di domande/ semi-rivelazioni/ interrogazioni/ sviate nel bersaglio… Già nel bambino, dunque, un occhio pieno di domande che nell’adulto si fanno inquietudine e, alla maniera di Kierkegaard, angoscia di qualcosa/ che non osa ancora conoscere ma che gli si impone come tensione che non dà tregua. E poi ci sono i morti che ritornano a parlarci/ quando è notte/ ci fanno compagnia per non abbandonarci/ all’orlo scemo del silenzio, in mezzo al buio./ Non loro hanno bisogno di noi/ ma noi di loro-, quasi a dire che non c’è separazione tra vita terrena e ultraterrena, che senza lo sguardo dell’altro, che cerca il nostro volto e con ciò ci accudisce, nessuno può trovare compiutezza. E la poesia rende possibile tutto questo perché è un fatto di presenze-/ e la parola, un’eco/ nel quale vibra la memoria/ dell’origine, col suo/ respiro cadenzato, che non smette. Comunione, questa, sia pure nel dolore a tratti riaffiorante, che diventa nostalgia, sinfonia, un tutt’uno con il respiro, con il passo a volte cadenzato, a volte scazonte. Una scheggia, una sassata, appunto, i versi del penultimo testo della silloge: com’è difficile scavare nel presente./ Qui/ dov’è eternità-/ ed è tutta d’un colpo.

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