Addio ad Arturo, clochard dal volto umano

È stato il clochard “dal volto umano”, mai irascibile, mai violento, anche quando era un po’ alticcio. Arturo Caumo aveva 66 anni. È morto mercoledì mattina, 25 gennaio, nella casa di riposo a Nomi, dove era ospite da una decina d’anni. Vi era stato accolto dopo un brutto incidente, una gamba maciullata da un’auto che lo aveva travolto, di notte, mentre era riverso lungo via Santa Croce a Trento. Lui avrebbe voluto continuare la sua vita sotto le stelle, libero come il vento, con i suoi tormenti, con le sue paure, con la propria coscienza. Ma il suo amico e tutore, il dott. Paolo Cavagnoli, dopo averlo seguito e inseguito per anni, lo aveva alfine convinto ad approdare a Nomi.

Arturo, figlio di una povera donna con gravi turbe psichiatriche, era stato cresciuto da una famiglia ai Martinèi della Regnana, sull’altipiano di Piné. Negli anni Cinquanta erano ancora numerosi i figli di ragazze-madri che passavano dal brefotrofio o dalle strutture dell’infanzia abbandonata. Da qui erano successivamente affidati a famiglie contadine. La Regione prima, la Provincia a partire dagli anni Sessanta, assicuravano una piccola retta di mantenimento. Era la prosecuzione di quello “stato sociale” attivato fin dalla prima metà dell’Ottocento con il Triplice Istituto delle Laste e più di ottomila “figli della colpa”, come scrivevano i preti dell’epoca, affidati a famiglie della Val di Cembra, dell’altipiano di Piné, del “contado” attorno alla città.

Arturo Caumo aveva frequentato le scuole elementari nella piccola pluriclasse della Regnana. Quando fu in età da lavoro fu assunto alla IGNIS di Spini di Gardolo. Vi restò qualche anno finché un brutto tiro di alcuni compagni di fabbrica lo portò a dare le dimissioni. Passò a Mattarello, a fare il servo agricolo in campagna. Si sentiva emarginato. Cominciò a trovare compagnia fra altri delusi dalla vita. Una panchina nel parco dell’ex Santa Chiara diventò così il suo approdo e il suo giaciglio.

Ai passanti domandava un “zigherèt” o cento lire per un bicchiere. Sempre sorridente, scambiava volentieri quattro parole se sentiva di essere preso in considerazione. Ricordava l’infanzia ai Martinéi, rievocava volti e nomi di “compaesani”. Raccontava la sua giovinezza alla Regnana, di quando andava “boiàr” con le capre o con le pecore. Aveva anche il gusto dell’autoironia.

“Me ricordo – raccontò un giorno – quela volta che avén portà en procession la Madòna. Mi ero el pù piccol dei coscritti e son slizegà su ‘n sass. El baldachin dela Madona el s’ha rebaltà e la statua l’èi finida giò ‘n fra le patatàre. Pòra Madona”!

Un giorno non si seppe più nulla di lui. In città girò la voce che doveva essere morto, da qualche parte. Lo ritrovammo a Nomi, un giorno che Paolo Cavagnoli disse: “Vieni che ti porto a vedere una persona”. L’Arturo era lì, lindo e sbarbato come un adolescente, seduto sul letto di una bella stanza, coccolato dal personale della casa di riposo. Non gli mancava nulla, confidò. Soltanto la libertà. Usciva per andare all’Ufficio postale, ritirava la corrispondenza per tutto l’Istituto. Sarà sepolto a Nomi perché l’intera comunità gli si era affezionata. Alla Regnana è rimasta la sua infanzia.

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il ricordo

“Di animo buono”, lo ricorda con affetto Paolo Cavagnoli, che lo ha assistito nel suo ruolo professionale fin da piccolo, come fosse uno di casa. Arturo lo chiamava “l’assessore” ma il suo rapporto affettivo trovava nell’assistente una guida che lui seguiva fedelmente. “Ci lascia una figura emblematica del tessuto sociale che molti trentini ricordano con simpatia. Arturo era sicuramente, anche nei momenti in cui l’alcol gli rendeva la vita difficile, un uomo buono, generoso e con una capacità e equilibrio apprezzato da tutti”.

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