“Quell’indispensabile poesia”

«L'insegnante è colui che dovrebbe 'lasciare il segno', maestro di maieutica». «La figura del critico è scomparsa: troppi conflitti di interessi». «La scrittura nasce da una ferita, emozioni sulla carta diventano sentimenti, con il filtro degli strumenti espressivi giusti» «La poesia è uno dei pochi canali di vita spirituale che ci rimangono in comune». L’ultimo libro, “Limone ruffiano”: «Per pensare a cosa fa del tavolo una tavola: guardarsi negli occhi, pensare al sacrificio di chi ha cucinato per te»

Romagnola, di famiglia veneta, a 22 anni si ritrova a insegnare a Trieste e, pochi anni dopo, approda a Trento.

Ma allora per Nadia Scappini il ponte esiste davvero?

Per me sì. C'è un legame spirituale tra le due città. Si respira cultura a Trieste come a Trento. Con personalità diverse ma laggiù mi sono travata benissimo. Ho fatto scuola, come si suol dire, in tutte le scuole del Regno, dalle medie all'istituto tecnico, latino e greco al classico, storia e filosofia allo scientifico.

Lo sognava fin da piccola quel ruolo?

Sì. In famiglia volevano facessi le magistrali. Ma la mia forte spinta era per il classico, pensando di fare l'insegnante di lettere classiche. Alle medie avevo un'insegnate siciliana straordinaria che ci parlava del mondo classico.

Come quel Nunzio Carmeni, siciliano trapiantato a Trento di cui lei ha curato la raccolta poetica?

Lo conobbi da ragazzina, con quel suo sguardo e quella parola affascinanti. Poi l'ho ritrovato come preside del Liceo Galilei. Saggista straordinario, uomo di cultura raffinato. Ma non sapevo scrivesse poesie. Quando l'ho scoperto, dopo la sua morte, ho avuto la fortuna di curarne la pubblicazione ed è stata una forte spinta anche per me ad esprimermi.

L'eredità della sua vocazione all'insegnamento?

Uno dei mestieri più belli. L'insegnante è letteralmente “colui che lascia il segno”. Puoi lavorare su menti dalle quali cavar fuori quel che hanno di buono… la maieutica, insomma. Lo si può fare indirizzando i ragazzi a buone letture, incoraggiandoli, dicendo, ad esempio, che il voto negativo non è sulla persona, ma sul prodotto del loro lavoro.

In questo la scuola del passato aveva gioco più facile visto il diverso rapporto scuola-famiglia. Conferma?

Ho visto anche in passato genitori che difendevano a spada tratta i loro figli, ma erano pochi numericamente. Ma ne ho avuti anche molti altri i cui figli avevano rendimento scolastico disastroso e che venivano a udienza: ”El m'ha dit me fiòl che ela l'è na carogna, come mi. E alora mi ho pensà: sen su la strada giusta!”. Lavorando insieme, genitori e insegnanti, abbiamo avuto risultati straordinari con recupero da situazioni molto negative fino alla promozione.

A proposito di giudizi, come vive il suo ruolo di “recensore”?

Non lo sono. Piuttosto diciamo che la figura del critico è scomparsa.

Perché?

Si sono mescolati i piani. Se prendiamo la pagina culturale del Corriere, a parte alcuni personaggi storici come Magris o Citati, vediamo che molto spesso a recensire sono gli scrittori stessi come Giordano, Valloni, Missiroli: c'è un conflitto di interessi palese nel gioco delle case editrici. Non è corretto, ci vorrebbe persona super partes.

Lei dice che la scrittura nasce da una ferita. Sempre?

Possono essere esperienze laceranti ma anche solo ferite alla sensibilità di una persona. Si sente questa necessità, questa forte pulsione a esprimere attraverso la parola qualcosa della nostra vita, a mettere sulla carta delle emozioni che possono diventare sentimenti quando c'è il filtro degli strumenti espressivi giusti. Quello che conta è il modo in cui si lavora sull'esperienza, perché questo fa la differenza. Ho letto libri molto buoni dove però lo stile non soccorreva. Non puoi usare una lingua per tutte le voci, per corretta che sia. Non puoi mettere in bocca al contadino un italiano perfetto. Qualcuno non l'ha capito.

Più poesia o prosa?

La poesia è il primo amore, la vocazione. Poi sono stata provocata a far nascere un romanzo (Le ciliegie sotto il tavolo, Marietti 2012, n.d.r.) da un mio racconto e ci ho trovato gusto. Le due cose non sono incompatibili, la poesia aiuta la narrativa.

Ci hanno trovato gusto anche lettori e critici del premio letterario Cortina dove le sue “Ciliegie” sono arrivate nella terna in finale e hanno vinto ex aequo il Premio Asti…

A Cortina ho pensato fosse un premio pulito essendomi trovata, incredula, tra colossi come il vincitore Monda e lo sfidante Albinati. Poi quest'ultimo, che secondo me meritava, alla proclamazione ha apostrofato pesantemente Monda…

Nel 2011 lei ha organizzato una serie di incontri sul tema “A cosa serve la poesia?”. La risposta?

Titolo provocatorio. Ho chiamato grandi poeti, critici e un editore, ma avevo soprattutto sottoposto un questionario a giovani studenti. E loro mi hanno risposto: non serve a niente, obiettivamente, ma guai se mancasse, perché è coscienza, è movimento verso l'altro, ci fa salvare le parole che contano. Ero rimasta stupita dalla loro spontaneità.

E la sua risposta?

La poesia è indispensabile. E' uno dei pochi canali di vita spirituale che ci rimangono in comune. La dico grossa: con la poesia potremmo forse dialogare con quelli dell'Isis. E' una forma di preghiera, pur incompleta, ma il terreno è lo stesso. Poesia è ricerca della parola giusta, che dica in sintesi i concetti grandi che vogliamo esprimere.

Stiamo parlando, ovviamente, della poesia di qualità. Non tutta lo è. La discriminante?

Cito Brodskij, Nobel per la letteratura nel 1987. Diceva che per il poeta la parola è un dovere antropologico e chi pensa che la poesia sia per l'intrattenimento o la lettura commette un crimine antropologico, anzitutto verso se stesso. A dire: non fanno niente di male i poeti della domenica, ma la poesia seria è altra cosa. Qualcun altro ha detto: “La poesia è un aldilà in terra, Cristo ci dia l'altra metà”.

Il consiglio all'aspirante poeta?

Leggere, leggere leggere i grandi poeti, entrare in sintonia con loro. L'autore vale tanto quanto il lettore ma senza pretendere di capire tutto. Alcune poesie non si comprendono, ma bisogna trovarci dentro la parola che sentiamo per noi…

Per l'editore “Il vicolo” di Cesena, dopo “Sonia e il poeta” è uscito ora “Limone ruffiano”, titolo quantomeno curioso. Cosa promette?

Limone ruffiano è un ritornello della mia mamma veneta: “Putìne, metéghe sempre 'l limon che l'è 'n gran rufiàn”. Il libro nasce da una ragione sentimentale, ma anche dalla mamma di mio marito che mi aveva lasciato un libro di ricette.

Limone protagonista anche in quel caso?

Niente limone, ma ricette che meriterebbero lo studio di un sociologo. Le ho messe in parte nel libro, accanto a una riflessione sul cibo. Mi sono messa a scrivere il bisogno della lentezza in questa vita, citando Adriana Zarri, Paolo De Benedetti e soprattutto Enzo Bianchi e la sua riflessione su cibo e sessualità.

In sintesi?

Cibo e sessualità possono diventare violenza e volgarità ma anche momento di condivisione sublime.

Il concetto chiave della sua riflessione?

Quante volte mettiamo la testa nel piatto e mangiamo senza pensare a cosa c'è dietro e a cosa fa del tavolo una tavola: guardarsi negli occhi, pensare al sacrificio di chi ha cucinato per te. Insegnare ai bambini a stare a tavola e avere rispetto del cibo credo sia una forma educativa e anche politica, per cittadini partecipi di una comunità più grande.

Limone a parte, il piatto preferito?

Gnocchi alla polesana: patate con burro, zucchero, cannella e parmigiano. Anche il castagnaccio, ma solo quello basso basso…

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Nadia Scappini (Bagno di Romagna, 1949), una vita da insegnante prima di approdare alla scrittura: oltre a varie raccolte poetiche (Le parole del cuore, La luna nuda, Il ruvido Mistero) e un saggio di preghiere e poesia (E tuttavia Ti cerco) pubblica nel 2012 il suo primo romanzo “Le ciliegie sotto il tavolo”, scelto nella terna dei finalisti al Premio Cortina e vincitore ex aequo al Premio Asti d'Appello. Dopo le poesie di “Un'ora perfetta” e il romanzo minimo “Sonia e il poeta”, l'ultimo lavoro: “Limone Ruffiano”, saggio su narrazione e convivialità

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