“Come camminare sul ghiaccio…”

Dall’iniziale diffidenza a un’esperienza significativa di incontro

Miola, 27 febbraio – “Io sì, ci sono andato, sì. All’inizio avevo paura, non mi fidavo. Pensavo: e se il ghiaccio si rompe? Ma poi ho visto che sopra c’era tanta gente, e sono andato anch’io a camminare sul lago”, racconta Alasan, ventenne del Gambia, che con altri 19 giovani africani ha trovato casa, da due anni, sull’altopiano di Piné. Accogliere, qui, è stato un po’ come camminare sul ghiaccio. Dapprincipio non ti fidi, prevale la diffidenza, sei vinto dalla paura. Pensi, come Alasan: “E se il ghiaccio si rompe?”. Poi qualcuno fa il primo passo. Timidamente. Saggia col piede la crosta. Appoggia un piede. Poi l’altro. Vede che il ghiaccio tiene. E si incammina.

Serve prudenza, certo. Papa Francesco lo aveva detto nel novembre scorso di ritorno dalla Svezia (ed era stato male interpretato). Lo ha ribadito in questi giorni nell’intervista concessa al giornale di strada “Scarp de’ tenis” (vedi pagina 13): i migranti hanno diritto ad essere accolti e aiutati, ma “con quella virtù cristiana che è la virtù che dovrebbe essere propria dei governanti, ovvero la prudenza”. Significa accogliere puntando all’integrazione, per “non creare ghetti”.

L'arrivo dei richiedenti asilo nel Pinetano, alla fine di febbraio 2015, era stato preceduto da polemiche legate all'opportunità di una simile presenza. Una diffidenza dovuta prevalentemente all'ignoranza, intesa come non conoscenza, che si era peraltro ben presto stemperata, grazie anche a iniziative come il pranzo conviviale di benvenuto offerto loro a Tressilla, occasione per conoscere qualcosa dei loro paesi d'origine e della loro vita prima del viaggio che li ha portati in Italia.

Ripensando a quelle giornate, il parroco di Baselga, Miola, Rizzolaga e Faida, don Stefano Volani, che è anche decano di Civezzano e Piné, osserva che, sì, ci vorrebbe un di più di informazione. “Forse – ragiona – c’è ancora poca chiarezza rispetto alle misure e ai sostegni previsti per legge nei confronti delle persone richiedenti asilo”. E così permangono stereotipi e resistono falsi miti (come quelli che smonta il sito del Cinformi, il Centro informativo per l’immigrazione della Provincia autonoma di Trento: www.cinformi.it) che contribuiscono a far crescere la diffidenza, rafforzano i muri, aumentano l’ostilità.

Da Miola, Faida, Tressilla, Rizzolaga, Baselga a incamminarsi sul ghiaccio in questi due anni sono stati in molti.

Si sono lasciati interpellare da una situazione nuova, si sono messi in gioco, hanno cominciato ad andare con regolarità a Villa Lory, il garnì di Monica Fedel che ospita i giovani richiedenti asilo, che nelle loro necessità sono seguiti dagli operatori del Centro Astalli e dal Cinformi: è la terza fase dell'accoglienza, secondo il protocollo definito dalla Provincia autonoma di Trento, che prevede la distribuzione in piccoli gruppi sul territorio provinciale (attualmente, i richiedenti protezione internazionale accolti sono 1.456, distribuiti in 45 Comuni diversi). Un modello di accoglienza diffusa sul quale punta ora anche il governo nazionale, come ha detto il ministro dell’Interno, Marco Minniti, annunciando per giugno un “Piano nazionale per l'integrazione”.

“Piano piano, il senso dell’accoglienza ha cominciato a prevalere”, racconta Maria Grazia Andreatta Rizzi, che con la figlia Elisa incontriamo a Villa Lory, mentre un po’ alla spicciolata i giovani ci raggiungono nel salone dove una stufa in ghisa spande il suo tepore. “Sono stati a giocare a pallone, fanno la doccia e arrivano”, li giustifica Elisa. Sono tutti molto giovani (c’è solo un quarantenne tra loro), sono arrivati in Italia dalla Libia – la maggior parte di loro era ancora minorenne – e hanno attraversato l’inferno, come conferma un rapporto dell’Unicef diffuso il 28 febbraio. Le loro provenienze riflettono il dato provinciale: la maggior parte è originaria dell’Africa subsahariana (Gambia, Senegal, Mali, Guinea Conakry, Ghana). Dalla Nigeria proviene l’unico di religione cattolica; tutti gli altri sono musulmani.

Lo sport è una delle attività che aiuta a occupare il tempo, in giornate che altrimenti trascorrerebbero tutte uguali. “Trovare il modo di occuparli è una delle nostre preoccupazioni”, conferma la signora Maria Grazia. Le feste, come le due “dell’accoglienza”; attività sportive – ha lasciato il segno la partecipazione alla “24 ore del Mai zeder”, non competitiva podistica attorno al lago della Serraia che ha visto quattro di loro correre all’interno di due delle squadre iscritte – e altre manifestazioni; attività di volontariato, ad esempio accanto ai Satini impegnati nella manutenzione dei sentieri di montagna della zona, piuttosto che nella pulizia delle strade su incarico dell’amministrazione comunale o in casa di riposo: tutto aiuta a occupare il tempo e a sentirsi utili e responsabili.

Anche l'organizzazione della vita quotidiana della casa è un impegno preso molto sul serio: a turno, i giovani si occupano delle pulizie e fanno da mangiare, in una sana autogestione. Ci sono poi i corsi di italiano da frequentare a Baselga e per alcuni di loro le lezioni al Centro Eda (Educazione degli adulti) di Pergine Valsugana. Qualcuno ha partecipato a tirocini formativi. “Alasan si è occupato degli anziani del Centro diurno della cooperativa Casa, adesso quando andiamo in giro mi dice: Qui abita questo, qui abita quella…”. Saidou ha lavorato come aiuto cuoco al “Rododendro” gestito dalla stessa cooperativa. “E adesso ci torna il sabato, come volontario”, rimarca Maria Grazia, salutando Ibrahim (che si fa chiamare Ibra) e Pakhir, pakistano, che vive qui vicino in un appartamento ed è uno dei 150 richiedenti asilo seguiti dal Cinformi all'interno del Sistema nazionale di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Sprar).

“Nella presenza di questi giovani – dice don Stefano Volani – vedo una doppia provocazione: primo, ci portano a interrogarci sulla nostra fede; secondo, fanno circolare una vitalità che noi non abbiamo più. E' una presenza che fa bene alle nostre comunità”. Don Stefano lo dice ricordando quando anche lui era straniero in terra straniera, missionario inviato come “fidei donum” (“dono della fede”) a Salvador de Bahia e poi a Petropolis, in Brasile, nelle realtà più degradate e bisognose, ma pure accanto ai giovani studenti di cui era professore all'università. Del gruppo ospitato a Villa Lory, don Stefano sottolinea “la ricchezza”: “Vedo che si sono inseriti, hanno passione, qualcuno ha incominciato a lavorare e a cercare una propria strada”.

“Oggi, accanto a un gruppo più ampio di volontari, siamo una decina ad accompagnare con continuità questi ragazzi”, spiega Maria Grazia. “Semplicemente, abbiamo provato a metterci al loro posto, a metterci nelle loro scarpe, come ha detto Papa Francesco, e il resto è venuto di conseguenza. Stando con loro ho imparato che ci si può accontentare di poco, che a volte basta uno sguardo o un sorriso. E quando me ne torno a casa, mi sento felice e mi sento perfino più giovane”, conclude, mentre i volti di Mamadou, Issa, Chris e Saidou si allargano in un sorriso. Un bel ricordo di questi mesi sull’altopiano, chiediamo loro? “Quando siamo andati a vedere il film ‘La prima neve’. In quella storia ci siamo ritrovati, è un po’ la nostra storia. All’inizio qui nessuno ci salutava, ma è normale, non avevano mai visto i neri qui!”. Sono passati due anni e oggi l’assessore provinciale alla salute e politiche sociali, Luca Zeni, può affermare che quanto sperimentato qui rappresenta uno dei più significativi esempi di “integrazione autentica, di solidarietà e volontà di coinvolgimento”. “C'è stata attenzione da parte delle realtà del posto, come la cooperativa Casa”, conferma don Stefano Volani, “che hanno dato a questi ragazzi l'opportunità di impegnarsi in un'attività. E chi li ha avuti a lavorare è stato contento”. Quella di un’occupazione, osserva Maria Grazia, è ora la questione più sentita da parte di questi giovani, alcuni dei quali hanno già ricevuto un permesso umanitario temporaneo che consente loro di trovare un impiego, per iniziare a costruirsi un’opportunità per il “dopo” accoglienza e a cominciare a camminare con le proprie gambe. “Sarà un passaggio delicato – rimarca don Stefano -, occorre capire quali forme di accompagnamento attivare verso la loro piena autonomia, in un cammino di integrazione”. In sottofondo, risuonano musica e parole di “Seven seconds”, il successo di Youssou N’dour, cantante e compositore senegalese che tra questi giovani va per la maggiore, messo sul piatto da Issa, il dj del gruppo: “Mi piacerebbe dimenticare il loro colore / Così torneranno a sperare /Troppi sguardi alla deriva che fanno di loro dei disperati / Lasciamo le porte completamente aperte / In modo che possano parlare del loro dolore e della loro gioia”.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina