Tempo di digiuno… o di dieta?

E se parlassimo di digiuno? O sarebbe più interessante parlare di dieta! Per come stanno le cose, siccome siamo quasi sempre ripiegati su noi stessi, sarebbe più coerente. Senza dubbio il digiuno che la Chiesa ci chiede di osservare nel tempo di Quaresima ha più radici pagane, negli insegnamenti di Gesù. Un biblista spiegava che la sua origine era legata alla paura di essere contagiati, nell’ora di un lutto in casa, mangiando ciò che il defunto aveva mangiato. E più tardi se ne è fatto un rito per convincere Dio a badare a noi.

Gesù non ha mai chiesto il digiuno e quello che lui ha fatto per 40 giorni non era un digiuno rituale, che cominciava al sorgere del sole e finiva al tramonto. Tra l’altro non aveva proprio bisogno di attirarsi la benevolenza del Padre: era pieno dello Spirito! È chiaro che se vediamo il digiuno come qualcosa “per noi stessi” sarà difficile distinguerlo da una dieta. Se invece lo vediamo nell’ottica del “Beati i poveri in spirito”, nel senso di “saper rinunciare a qualcosa per aiutare gli altri”, allora ha senso privarci di qualcosa per “condividere” con chi ha meno di noi.

Ho conosciuto famiglie che, abituate a mangiare fuori il sabato sera, in Quaresima restavano a casa e quello che avrebbero speso lo mettevano da parte per darlo a qualcuno più bisognoso di loro. Allora sì che ha senso digiunare, perché il centro non sono io, ma i miei fratelli e cosi proclamo nella pratica che accolgo Dio come Padre “nostro”.

Se non mi sforzo di vedere e sentire quei “disgraziati” di migranti che “vengono a toglierci il pane di bocca”, tutti quegli “extracomunitari” che mi fanno comodo quando non trovo altra mano d’opera, se non li vedo e sento come miei fratelli, svuoto di senso ogni digiuno e pure il mio dire “Padre nostro”.

Se il Regno di Dio annunciato e inaugurato da Gesù non comincia in me con l’accogliere Dio come Padre di tutti e col farlo accogliendo ogni persona come mio fratello e mia sorella, ho ancora molta strada da fare per dirmi cristiano.

Meritano tutti i riconoscimenti coloro che offrono il loro aiuto quando accadono terremoti e disastri di vario genere: la solidarietà è un proclamare nella pratica che quelli che soffrono sono miei fratelli. Ma quante volte, almeno nella preghiera dei fedeli durante la Messa, ci ricordiamo dei nostri fratelli che muoiono di fame (800 milioni, secondo la FAO), delle morti nel “nostro” Mediterraneo, delle vittime dei terremoti in Messico, per esempio, o dei tornado nelle Filippine? Loro non sono… parenti lontani, ma miei fratelli! E se poi pensiamo ai banditi, agli stupratori, ai pedofili, agli assassini, a coloro che stanno in carcere, ai corrotti e… chi più ne ha più ne metta, ognuno di loro può essere un “figlio prodigo”, ma un figlio del Padre compassionevole che vuole che “il peccatore si converta e viva”. Non potrò mai negare che sia mio fratello o mia sorella. Negandolo, nego Dio come mio Padre!

In Brasile, un’inchiesta, che spero non sia troppo veritiera, ha rilevato che, per il 57% della popolazione, “il bandito buono è il bandito morto”, e più del 90% si dice “cristiano”. Allora devo digiunare dal mio egocentrismo, dal mio pensare solo, o quasi, a me stesso, alle mie cose, alle mie preoccupazioni, e guardare alle persone e al mondo con altri occhi: con uno sguardo di misericordia!

Da tutto il piano di salvezza dovrebbe apparire ben chiaro che ciò che fa sì che Dio guardi a me, non sono in primo luogo le mie preghiere e le mie devozioni, ma la mia preoccupazione per i miei fratelli: nella misura in cui mi prendo cura delle persone, vicine e lontane, lascio che Dio sia il Padre buono che si prende cura di me e delle mie cose. Se riesco a fare di questa verità un atto di fede, credendoci veramente, la mia vita diventerà molto più semplice: Dio stesso si prenderà cura di me ed egli, come buon padre, infinitamente più buono di qualsiasi padre, saprà darmi ispirazione e forza per risolvere i miei problemi ancor prima che noi li trasformiamo in preghiera da presentare a Lui.

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