Il caso Itas, le bugie e i premi

A un giovane amico che lo aveva incontrato pochi giorni prima della sua scomparsa, il 16 aprile di 5 anni fa, lo storico presidente trentino di Itas, Edo Benedetti, aveva raccomandato: “Dobbiamo tenere accesa la luce”. Una consegna di rigore morale, la consapevolezza di un dovere laico, non solo cristiano, distillata da un novantenne che è stato luminoso punto di riferimento da sindaco di Trento e da volontario al Villaggio SOS e al CSI trentino.

L’indagine della magistratura che in questi giorni ha scosso alle fondamenta etiche la lussuosa sede Itas alle Albere farebbe pensare che ai piani alti del palazzo qualche luce si sia invece spenta negli ultimi anni. Se saranno accreditate le ipotesi di truffa, calunnia ed estorsione a carico dell'ex direttore Ermanno Grassi, impegnato a smentire queste accuse e la compravendita di automobili di lusso e favori ai familiari, avremo un’ennesima amara conferma: chi è investito di un ruolo di fiducia e di governo – politico o imprenditore che sia – non potrà ingannare a lungo la comunità d’appartenenza, perdendo la propria dirittura in scorciatoie di tornaconto che fanno a pugni con la missione dichiarata dell’ente fin dal 1821 (“Mutua” è qualifica di Itas Assicurazioni).

Forse più ancora che le scelte operative, diventa giudizio su ognuno di noi lo stile personale, il tenore di vita: quello praticato e quello perseguito. In una visione di responsabilità sociale, non è poi vero che “ognuno è padrone a casa propria”. Nel bene ma anche nel male, è impossibile isolare la sfera dell’impegno pubblico da quel retroscena personale di interessi, passioni, frequentazioni e obiettivi che prima o poi affiora. Basta leggere Pinocchio dove le bugie hanno le gambe corte, si fanno handicap.

Siamo giudicati non solo nel nostro rapporto col potere, ma anche col denaro e con l’estratto conto. Talvolta ce ne dimentichiamo, ma il “mettere in guardia” da tentazioni grandi e piccole è una delle virtù oggi forse più dimenticate. Perché siamo ancora in un tempo in cui risulta falsamente premiante esibire un hobby esclusivo e poter contare su una lobby di riferimento.

“Dobbiamo dire basta – ce lo ha ricordato l’Arcivescovo Lauro il giorno di Pasqua – a una vita pensata come codice fiscale, come budget di spesa, come profilo virtuale. L’uomo e la donna sono bellezza, mistero, incanto“.

Davanti ad un ente dalle radici ben diffuse, nel quale fin dai tempi dei volontari antincendio la fiducia era una cosa seria, restiamo fiduciosi che si riuscirà a fare la pulizia richiesta dalle rappresentanze sindacali affinché il nome dell’Itas (per oltre 15 anni acclamato nei palazzetti di tutt’Europa) ritrovi presto la stima in parte appannata.

Questa vicenda giudiziaria (peraltro non conclusa) evidenzia l’importanza dei controlli incrociati anche nelle catene di comando private, per non trasformare la fiducia in delega a occhi chiusi.

Una parola infine sui cosiddetti “premi di produzione”, che in questo caso paiono davvero consistenti, come avviene pure nel settore pubblico sotto il nome di “obiettivi raggiunti”. Non sarebbe ora di mettere laicamente in discussione questi automatismi premianti (e chi li decide poi? vale per tutti questa meritocrazia?) che hanno un sapore feudale, alimentando ambizioni, invidie e combutte. Altro che “giusta mercede”, gonfiano i sogni di berline e Mercedes!

E’ possibile pensare di ridimensionare, se non azzerare, questi premi di produttività per rendere la nostra autonomia sobriamente speciale? Imponiamo nel pubblico e applichiamo nel privato una sorta di Valutazione d’Impatto di Sobrietà, che eviterebbe eccessi e squilibri perniciosi alla comunità. Parliamone, non solo perché lo chiedono i giovani: una società meno diseguale si rivela anche più felice.

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