Renelle, i legni del lutto

Venerdì 14 aprile anche in val di Cembra sono tornate a gracchiare le “renele”. Foto © Gianni Zotta
Faver (Altavalle) – A mezzogiorno del 14 aprile 2017, il silenzio è stato rotto da oggetti che un tempo, tanto tempo fa, erano tolti dagli armadi delle sagrestie due soli giorni l’anno: il venerdì santo e la vigilia della Pasqua. A Faver, una decina di adolescenti hanno animato il fine settimana con le “renèle” prelevate dalla sagrestia della parrocchiale dei santi Filippo e Giacomo.

Cesare Paolazzi, 87 anni, calzolaio da settanta (il 25 aprile) ricorda che andava in giro con le “renèle” che non era ancora alle elementari. La settimana santa anche la campane di Faver restavano mute, al pari di tutte quelle degli altri paesi. “Invece, alla fine della Grande Guerra erano state le uniche della valle a suonare a distesa, perché erano state donate dall’imperatore Cecco Beppe nel 1865, mentre tutte le oltre duemila campane del Trentino erano state requisite per far cannoni”.

I legni del lutto, quindi. A Segonzano e Fàver le chiamano renéle; a Giovo teredèda; nelle Giudicarie e in Val di Non ràcole; in Val Rendena trabàccole, battedelle; nella zona di Storo graùc; in Valsugana e nel Tesino batudèlo, gràmole o sgrègole, a Trento gréga. A Lavis, renella o Bottichiella. In Val di Fassa sono indicate come rò da vènder sènt. Nella bassa Vallagarina e nell’alto Garda trentino sono chiamate ràcole, bataréle, racoloni.

Si tratta di uno strumento di legno, incavato, nel quale è fissata una ruota dentata che viene fatta girare attorno a se stessa. Le tacche della ruota comprimono e fanno saltare alcune assicelle ricurve, provocando in tal modo un rumore secco, un cra cra insistente come un concerto di rane. In qualche paese delle valli, è ancora usato dalla notte del giovedì santo alla sera del sabato di Pasqua. Il tempo cioè nel quale le campane restano mute. Con questi crotali di legno si richiama(va) la comunità ai riti della Settimana santa. In taluni paesi dove la tradizione resiste o è stata “resuscitata” sono i più piccoli ad azionare la renéla, o gràtola o ràcola.

In Val di Fassa, a Campitello, si usa la bàtola. È una tavola di legno con in mezzo un martello fissato a un perno. È battuto ritmicamente da una parte all’altra. Alle 6 del mattino del venerdì e del sabato santo l’onore e l’onere della batolàz (di battere la battola) tocca ai capifamiglia. Durante il giorno lo strumento passa ai ragazzi che dalla chiesa dei santi Filippo e Giacomo (come a Faver) scendono tra le abitazioni ad annunciare l’imminente funzione religiosa.

La sera del venerdì santo, a Storo, un corteo formato da squadre di giovani del paese (i “batedür”) trasporta tronchi d’albero a passo di marcia, battendovi sopra colpi ritmati con mazze di legno. La tradizione, cancellata poco prima della seconda guerra mondiale, fu ripresa una decina di anni fa. Con le bòre allineate sul sagrato della parrocchiale di S. Floriano, la notte del venerdì santo a Storo si illumina di mille fiammelle, ricavate da artigianali lucerne. Gusci delle lumache (gli omàc), riempiti con olio di noce e uno stoppino, erano accesi sui davanzali e lungo le staccionate.

Nel Bleggio la processione del venerdì santo, scandita con due mazze di legno che battevano un tronco è detta baticiòch. In Val di Cavedine al passaggio del corteo si accendevano falò nei campi. A Vezzano la sera del venerdì santo si andava fra i campi, al santuario di S. Valentino “in agro”. I cantori intonavano il miserere. Ad ogni versetto i devoti rispondevano con un lagrimevole “popule meus”.

A Javré e in altri villaggi della Val Rendena, i ragazzi trascinavano fino nel greto del Sarca le catene del camino per pulirle dalla fuliggine e per rievocare, con quel rumore sordo e metallico, la morte di Cristo. Quale compenso per la stròzzega, i ragazzi ricevevano uova sode, colorate, da usare quale “bersaglio” nei giochi di Pasqua sulla piazza davanti la chiesa.

A Trento, sino al XIX secolo, cinquanta croci erano trascinate alla stessa maniera sul selciato delle vie cittadine. Rappresentazioni sacre sul tema della Passione e della Resurrezione furono in voga per tutto il Medioevo.

Nel Banale, numerosi lasciti testamentari indicavano il venerdì santo quale giorno preferito per la distribuzione di pane o di sale. A Fiavé, nel Lomaso, il sale era distribuito solo ai poveri; il pane, invece, era offerto ai vicini il giorno di Pasqua.

Per annunciare la Pasqua, la sera del sabato santo, sulle alture attorno ai paesi si accendevano grandi roghi. Invece, il primo che faceva battezzare il figlio dopo il rinnovo dell’acqua del sabato santo, doveva regalare al curato un capretto.

A Pasqua, nel villaggio di Bono di Bleggio era consuetudine far benedire e macellare due agnelli la cui carne sarebbe poi stata distribuita a tutti gli uomini della comunità. Oggi gli agnelli si rivedono in uno spot promo-pubblicitario di qualche ex leader politico, caduto dalla seggiola e in cerca di “resurrezione” populista e popolare.

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