L’arte che libera

La carica umana delle opere dei detenuti di Spini di Gardolo e le profonde riflessioni degli studenti di Vezzano in mostra al Museo Diocesano

"Siamo percepiti come ombre senza identità, uomini senza volto, ma dietro queste sbarre c'è un uomo che può agire e sentire". "L'albero ha ancora tante foglie sui suoi rami e il libro ha ancora tante pagine da sfogliare".

Sono pensieri in dialogo che creano un contatto, aprendo ad una comunicazione profonda e inedita tra "dentro" e "fuori" che ha dato vita alla mostra "Dipingere il buio. In realtà siamo liberi", inaugurata venerdì 26 maggio (aperta fino al 19 giugno) al Museo Diocesano Tridentino, a Trento, in appendice all'appena conclusa "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere".

L'esposizione rappresenta lo straordinario e originale esito di "Un viaggio per parole e immagini", laboratorio condotto nella Casa circondariale di Spini di Gardolo dalla direttrice Domenica Primerano, dall'educatrice museale Valentina Perini, dalla professoressa Riccarda Turrina e dall'artista Michele Parisi: un progetto artistico di elevato spessore umano e formativo avviato lo scorso febbraio con un gruppo di detenuti, che ha coinvolto in un percorso parallelo di riflessione e rielaborazione gli alunni di due classi della Scuola Secondaria di Primo Grado di Vezzano.

Nel corso della presentazione Primerano ha sottolineato il valore di un'esperienza sorprendente e intensa per tutti – i detenuti sono "usciti" dal carcere con le loro parole e immagini, gli studenti sono "entrati" immedesimandosi nei loro sentimenti -, riportando le voci di chi non poteva essere presente: "Ho sentito che sono utile; sono fiero del lavoro fatto e di me stesso; ho scoperto la passione per l'arte e spero sia un punto di partenza; ho iniziato per curiosità, e ho imparato molto; quando frequento il corso di pittura non ho la sensazione di essere in carcere; ci hanno trattato come esseri umani, grazie".

“Scopo del percorso – ha commentato Turrina – era avvicinare gli studenti ad un tema impegnativo e farli riflettere sulla necessità di guardare la realtà da punti di vista diversi prima di giudicare”. “Il carcere ci appare come un luogo cupo, ma non dovrebbe visto che serve per riabilitare; occorre conoscere di più le storie dei detenuti per superare i pregiudizi”, hanno detto due alunni mentre alle loro spalle scorrevano le immagini scattate dalla fotografa Valentina Degiampietro, raccolte in un video che ha documentato l’attività scolastica (svolta anche grazie alla collaborazione del professor Marco De Vigili), cogliendo l’entusiasmo e l’impegno degli studenti nelle varie fasi del progetto, come evidenziato dal professor Alessandro Fabris. “Tante realtà collaborano con noi, hanno voglia di raggiungerci e contribuire a creare un luogo dignitoso – ha dichiarato Tommaso Amadei, responsabile dell’area educativa del carcere -: non siamo poi così invisibili e lontani, c’è un legame significativo con il territorio”.

Nelle sale del museo, simili a stanze intime e segrete, separate da tende a strisce che ricordano le sbarre di una prigione, si possono ammirare opere di immediato impatto visivo e contenutistico che rivelano la carica umana sprigionata dai detenuti e le poetiche e mature riflessioni degli alunni. Il racconto di due mondi che si incontrano, trovando un prezioso alleato: il libro, strumento di narrazione prima di tutto a se stessi e poi agli altri.

Le vite dei carcerati assomigliano a un testo "statico" come quello realizzato da uno degli studenti, circondato da catene che impediscono di girare le pagine, a simboleggiare, forse, opprimenti gabbie mentali prima ancora che fisiche: l'indifferenza di chi ignora cosa è successo prima e il disinteresse rispetto a come potrà evolvere la storia, i pregiudizi e gli stereotipi. Ma ci sono altri tipi di "volumi": libri liberi che consentono di evadere e viaggiare con la mente, trasformati in cassetti all'interno dei quali si leggono parole sorprendenti – "sta a noi decidere il nostro luogo" -; in pagine su cui una penna nera ha cancellato tutte le parole tranne quelle, sparse tra le righe, che sono così messe in risalto – "ho cercato di ritrovare la libertà" -; in base d'appoggio per un omino sdraiato che contempla le nuvole, leggere come cotone, sopra di lui. Da un libro nero, si slancia verso l'alto una mongolfiera che trasporta "respiri, voglia di cambiare, costruire", a contrastare parole pesanti che vorrebbero trattenere a terra come "cieco" e "sbarre". Il gesto creativo plasma il pensiero, libera energie generative che fanno uscire dal buio della gabbia grazie alla luce dell'immaginazione. Lo stesso titolo della mostra, scelto dai corsisti, indica la positiva esperienza vissuta e la consapevolezza che, anche dentro un carcere, cultura e arte sono strumenti di crescita che offrono margini di libertà e consentono di dire "anch'io lascio una traccia", trovando motivo di riscatto umano e sociale.

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