In piedi, in cammino. Accanto all’inquietudine dell’uomo

Ho conosciuto mons. Emilio Paternoster quando era solo don. In Brasile. Era il 1997. Vent’anni fa. Stava in una delle tante periferie di San Paolo, tentacolare metropoli. Accompagnato dall’allora direttore del Centro missionario di Trento, don Mariano Manzana, oggi vescovo di Mossorò nel Nord Est del Brasile, e da mons. Giuseppe Zadra, vicario generale dell’epoca, lo incontrai per la prima volta all’interno della chiesa che stava facendo edificare nel barrio Jardim Capèla. In cima a improbabili impalcature di canne erano al lavoro alcuni operai e don Emilio, dal basso, dava loro indicazioni. Accanto alla chiesa, aveva voluto costruire l’oratorio e la casa della comunità: perché, diceva, il missionario non deve trascurare l’impegno di promozione sociale. In quella periferia alla periferia aveva chiesto lui di andare, dopo i primi 24 anni di Brasile. “Dove stavo prima, con il tempo erano sorte otto comunità di circa 8-9 mila persone l'una e sette di esse oggi sono parrocchie affidate a preti locali”, aveva confidato a don Ivan Maffeis che nel gennaio 2007 era salito a Brez per intervistarlo (don Emilio era rientrato in Trentino nel 2000, afflitto da problemi di salute). Considerato concluso il suo compito, non si era seduto, compiaciuto. No. Si era alzato e si era messo nuovamente in cammino. Per stare accanto ad altri diseredati, dei quali raccogliere le confidenze e ascoltare le inquietudini del cuore.

Ho ripensato a quell’incontro di vent’anni fa nelle favelas di San Paolo sabato scorso, in Seminario, dove erano riuniti i missionari rientrati per le vacanze. E non solo perché proprio in quella sede il vescovo Lauro ha dato, commosso, la notizia della morte di don Emilio.

Si è parlato, sabato, dell’attualità dell’annuncio e di come portarlo all’uomo e alla donna di oggi, i cui cuori inquieti attendono solo qualcuno che sappia porsi in ascolto (lo raccontiamo alle pagine 12 e 13). C’è più che mai bisogno, oggi, di uomini e donne – sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche – capaci di fare propria la passione di tanta gente, ammalata e poverissima, abbandonata nelle favelas, quelle alle periferie delle grandi metropoli e quelle esistenziali. La Chiesa, non si stanca di ripeterci Papa Francesco, deve “trovare l’inquietudine della gente”.

Quest’anno il Centro missionario di Trento festeggia i novant’anni di vita. E perché questo anniversario non sia vuota celebrazione – non lo sarà, ne siamo convinti -, va colto come un’occasione preziosa per rafforzarci, come Chiesa di Trento, nella convinzione che è tempo di incamminarci con rinnovato vigore sulle strade percorse dalle inquietudini di tanti. E’ tempo di alzarsi, di rimettersi in cammino. “Mai seduti”, hanno detto i nostri missionari e le nostre missionarie, confortati da collaboratori e amici del Centro missionario. “Mai seduti”, avevano detto ai primi di febbraio i missionari trentini che operano in America latina, interrogandosi a Maceiò, nel Nord Est del Brasile, nel loro tradizionale incontro biennale, sul ruolo di laici e laiche nella Chiesa. “Mai seduti”, esorta Papa Francesco, perché “una Chiesa che non si alza, che non è in cammino, si ammala e finisce chiusa, con traumi psicologici e spirituali, chiusa nel piccolo mondo delle chiacchiere, chiusa senza orizzonti”. Ma in questo alzarsi per mettersi in cammino occorre… abbassarsi: è il paradosso dell’umiltà, richiamato dalle parole chiare del vescovo Giuseppe Filippi e ribadito dal vescovo Lauro (“Oggi la missione è chiamata a indossare il vestito dell’umiltà… nell’incontro con l’altro dobbiamo saperci abbassare”, ancora a pagina 12).

Ci dicono anche altro, i nostri missionari e le nostre missionarie. Nel loro privilegiare gli ultimi, i poveri, gli esclusi – potremmo dire, con Papa Francesco, gli “scarti” – della globalizzazione, ci ricordano la necessità imprescindibile di una ecologia umana, che – ce lo dice a pagina 6 don Marcello Farina – “solleva i temi globali della fame, della distribuzione universale dei beni, dell’inclusione sociale”. La risposta al grido dei poveri, che si somma al grido della terra, non è in una sorta di mega Daspo, ma intreccia indissolubilmente fraternità, giustizia, fedeltà nei confronti degli altri (Papa Francesco, Laudato si’, n. 70).

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