“Custodiamo e coltiviamo la nostra casa comune”

Nel ventennale dell'istituzione del Corpo provinciale, una riflessione su uomo, territorio e ambiente

Mille anni fa un nobile fiorentino, Giovanni Gualberto, figlio di una illustre famiglia toscana, alla ricerca di pace e di semplicità, si ritirò in una solitaria e silenziosa foresta dell'Appennino e si dedicò assiduamente, insieme con i suoi compagni, alla coltura dei boschi, tanto che quel luogo, Vallombrosa, divenne a ragione la culla della selvicoltura del nostro Paese. Per questo, nel 1951 fu scelto come patrono dei forestali, da sempre difensori dei boschi e della natura. Il 12 luglio, come da tradizione, i Forestali hanno festeggiato il loro patrono e il ventennale dell’istituzione del Corpo provinciale presso il Centro Vivaistico Forestale Casteller. Dopo i saluti delle autorità – c’erano il presidente della Provincia autonoma di Trento, Ugo Rossi; l’assessore alle foreste, Michele Dallapiccola; il vescovo Lauro Tisi – e la relazione del Capo del Corpo Forestale, densi spunti di riflessione sul tema “Uomo, territorio e ambiente” sono venuti da don Marcello Farina. Ne riproponiamo una sintesi.

Abitare la terra, oggi

Papa Francesco avverte della velocità che le azioni umane impongono al pianeta, in contrasto con la lentezza dell'evoluzione biologica (“rapidaciòn”, la chiama, n. 18); delle forme di inquinamento che colpiscono quotidianamente le persone (n. 20); della cultura dello “scarto” che colpisce tanto gli esseri umani che le cose (n. 22). Egli denuncia con forza le gravissime “iniquità” che si compiono tra l'indifferenza di tante persone (n. 25). Si tratta, egli insiste, di una iniquità planetaria che colpisce in particolare i più deboli del pianeta e, perfino, paesi interi (nn. 22, 36, 48).

Eppure, pur di fronte alla situazione per niente rosea fin qui delineata, egli precisa, fin dall'inizio della sua enciclica, che “il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode” (n. 12).

Ogni uomo “deve” ricordare che per la sua vita sulla terra, egli “dipende dall'esistenza degli animali, delle piante, dell'aria e dell'acqua, della luce delle ore diurne e notturne, deve fare affidamento sul sole, sulla luna e sulle stelle, senza le quali non può vivere. L'uomo esiste soltanto perché ci sono tutte queste creature. Esse possono esistere tutte senza l'uomo, ma non l'uomo senza di esse. Non si può dunque immaginare l'uomo come sovrano divino sulla terra. Egli è un membro dipendente della comunità terrestre” (J. Moltmann, Terra nostra patria?, dattiloscritto, Trento, 2016, pp. 8-9).

Comunque, anche se a prevalere è la lode, non è che il papa non veda i problemi, la loro gravità e il loro accumularsi: nell'ultimo paragrafo del documento confessa di aver compiuto una “riflessione gioiosa e drammatica insieme” (LS, n. 246). Non tutto è perduto – egli sostiene – e “l'umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune” (n. 13).

Per Francesco tutto è in relazione e tutto è connesso. Il che vuol dire che interrogarsi sullo stato della nostra casa comune è sempre anche interrogarsi sul senso e sul fine dell'uomo dentro e insieme con essa, sul suo agire responsabile o meno, per cui accanto a una ecologia ambientale serve una ecologia umana. Quest'ultima, inoltre, solleva i temi globali della fame, della distribuzione universale dei beni, dell'inclusione sociale, sfociando spontaneamente in un’ecologia sociale fondata sulla fraternità e sulla sororità. E’ quella che la Laudato si’ definisce ecologia integrale, espressione che ritorna ben 9 volte nel documento e ne costituisce il cuore pulsante. (E’ il cap. 4° dell'enciclica, nn. 137-162).

Per lui “la cultura ecologica non si può ridurre una serie di risposte urgenti e parziale i problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all'esaurimento delle risorse naturali, all'inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita, una spiritualità, in una parola una donna, un uomo, le cui relazioni sono il frutto di una “ecologia umana”.

L’abitare dell’uomo, oggi

L'enciclica Laudato si’ invita a prendere coscienza della necessità di cambiamento di stili di vita, di produzione e di consumo ormai indifferibili. Sollecita la responsabilità di ciascuno e delle comunità, perché si ricomponga la capacità di esperienze solidali, condivise, nella costruzione del bene comune, nella denuncia della violenza, dell'arroganza di certa economia e della finanza.

Per il papa “la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la terra è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia, dalla fedeltà nei confronti degli altri” (n. 70).

E’ in questo contesto che mi permetto di introdurre una domanda che può apparire fuori luogo, “straniera”, superflua: l'abitante (cioè l'uomo) sa come abitare la sua casa (cioè la terra)? In modo un po' solenne: c'è un’antropologia condivisa all'altezza della situazione o le correnti concezioni dell'umano sono inadeguate per rispondere alla sfida che quella gli lancia? Un interessante studioso del nostro tempo, Silvano Petrosino, in un bel libretto, intitolato Pensare il presente, scrive: “Mi sto accorgendo che alla base di molte riflessioni di oggi sulla politica e sulla giustizia, sulla scienza e sull'etica, sulla verità e su Dio, eccetera, vi è una concezione banale, quasi caricaturale, del soggetto umano. (…) La questione essenziale mi sembra dunque essere la seguente: come essere seri con l'essere umano?” (Ivi, pp. 63.64).

La sua risposta si avvale di un testo molto bello di Martin Heidegger, il grande maestro del Novecento, che in una celebre conferenza sul costruire intitolata Costruire abitare pensare del 1951, afferma: l'uomo esiste come uomo, esiste in quanto uomo, perché abita. Affermazione interessante, perché non dice che l'uomo esiste perché mangia o perché dorme; e neanche che l'uomo è uomo perché ha una fede religiosa o perché pensa. Heidegger afferma che esistere da uomini significa “abitare”; e poi subito si chiede: che cos'è l'“abitare”? Che cosa significa “abitare”? La sua risposta è la seguente: “abitare vuol dire coltivare e custodire il campo”.

E’ chiaro il riferimento, seppur mai riconosciuto da Heidegger, al testo di Genesi 2,15: “Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”.

L'uomo è allora colui che è chiamato coltivare e a custodire ciò di cui non è l'autore, ciò che non ha mai potuto, per l'appunto, costruire.

Da ultimo, occorre ricordare che “il nostro mondo, il cosiddetto primo mondo, è così fiero dei propri successi, in verità strepitosi, che alla fine rischia di giungere alla seguente conclusione: ‘Andiamo avanti, coltiviamo, continuiamo a coltivare; al custodire penseremo in seguito!’. Ma un costruire-coltivare che non sia fin da subito anche un custodire si trasforma fin da subito in un distruggere. A tale riguardo si può citare il Frankenstein di Mary Shelley; vale la pena di ricordare che Frankenstein non è il nome del mostro, ma del dottore. C'è un costruire che genera mostri. Bisogna sapersi fermare, bisogna saper accogliere ciò che non si è costruito e, soprattutto, bisogna riconoscere che c'è l’incostruibile”. (Ivi, p. 75).

Marcello Farina

(il testo integrale sul sito di Vita Trentina)

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina