La Liberia di Weah

Non che difetti la buona volontà e l’agonismo in George Weah, oggi il nuovo presidente della Liberia (nome contraddizione in quello spicchio di territorio africano fin troppo incuneato nella schiavitù dell’impoverimento economico e della soggezione culturale). Personalmente lo ricordiamo centravanti del Milan in lunghe cavalcate dalla propria area di rigore, palla al piede, fino all’area avversaria a fare gol strepitosi da cineteca. Chi gliel’ha fatto fare di cimentarsi per una terza volta – dopo che per due ne era uscito sconfitto – alla presidenza di una nazione tormentata da epidemie e impoverimento crescente?

Probabilmente la risposta l’ha data lo stesso Weah quando, anni addietro, all’intervistatore di un giornale sportivo che gli chiedeva delle sue umili origini, rispose che era cresciuto dormendo in 14 in una stanza. “La nonna nel letto e noi 13 fratelli sul pavimento”. Il padre e la madre si erano separati e ognuno se n’era andato per una propria strada, lontani. “La nonna aveva radunato tutta la famiglia in una stanza e affittava il resto della casa per qualche soldo. Mangiavamo riso. Riso e basta. Avevo sempre fame”.

Ecco perché George Weah ha voluto testardamente diventare presidente della “sua” Liberia, per riscattare la “sua” gente dalla fame atavica, dalla sottomissione e dal triste destino di una moderna schiavitù.

Già da calciatore miliardario che aveva fatto fortuna grazie alle sue doti di stile e di potenza (un centrattacco di sfondamento non privo di un elegante dribbling), George Weah aveva le idee chiare sul mondo e su come gira (cosa, a dire il vero, piuttosto rara in un ambiente ovattato e fin troppo – troppo! – privilegiato e avulso da ogni termine di riferimento concreto col mondo degli umani). Per esempio era sicuro che quando gli europei avessero smesso di vendere armi agli africani le guerre sarebbero cessate. Come musulmano convinto nutriva un grande rispetto per i crétiennes, i cristiani. Era decisamente per le frontiere aperte: “Per tanto tempo i bianchi sono venuti in Africa in cerca di oro e diamanti. Adesso sono gli africani a venire in Europa per cercare lavoro. E’ normale, il mondo è di tutti”.

Governare la Liberia non sarà facile, ci vorrà tempo e molta pazienza e tenacia. Cinque milioni di abitanti, quasi il 70% vivono sotto la soglia della povertà con appena due dollari al giorno a disposizione, l’aspettativa di vita si ferma alla soglia dei sessant’anni.

Non che Weah sia una novità per la Liberia. Questo Paese insolito e infelice era stato governato da una donna sobria e volitiva, Ellen Johnson Sirleaf, insignita persino del Nobel per la Pace. Che pure si è distinta per un modo di dirigere la res publica che in Africa è piuttosto raro: trasparenza, ampio respiro riformatore, afflato popolare e nient’affatto populista. Insomma si spera che il 51enne nuovo presidente – seppure abbastanza digiuno della politica tradizionalmente intesa – sappia governare in modo onesto; soprattutto sia in grado di circondarsi di una squadra capace e scevra da tentazioni corruttive, cosa già di per sé molto difficile perché purtroppo la corruzione è il pane quotidiano dell’agire politico e sembra impossibile in un continente che ha visto campioni dell’altruismo e dell’agire irreprensibile come i Lumumba, i Sankara, i Neto.

Osservava Franz Fannon – il grande intellettuale e ideologo dell’indipendenza africana – che tutto parte da lì, dalla capacità di essere intransigenti prima di tutto con se stessi, e dalla determinazione a non lasciare che il tarlo dell’ingordigia divori quel germe di bene che ognuno si porta nel cuore.

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