Un papa straniero, come ai tempi di Prodi

Di Maio e Salvini d’accordo sul nome di un premier “terzo”: una specie di “papa straniero” come fu ai tempi del primo Prodi

A furia di esagerare in parole e opere il duo Di Maio-Salvini sembra sia riuscito ad infilarsi in una trappola. Ne sono usciti alla fine con l’accordo sul nome di un premier “terzo”: una specie di “papa straniero” come fu ai tempi del primo Prodi da parte della coalizione di centrosinistra. Il prescelto è il prof. Giuseppe Conte, un giurista estraneo fino a pochi mesi fa alla politica politicante, ma ben presente in una serie di incarichi presso i vertici della pubblica amministrazione e attivo come importante avvocato civilista. Era stato però presente nella lista degli ipotetici ministri scelti da Di Maio prima delle elezioni.

Ci si era chiesti la ragione di questa opzione e ad alcuni era sembrato che alla fine si fosse convenuto che nella difficile gestione di un “contratto” (in realtà un programma) vago da un lato e troppo ambizioso dall’altro potesse essere molto utile avere a Palazzo Chigi qualcuno in grado di interfacciarsi in maniera efficace con i problematici vertici dei vari ministeri. Molti si chiedevano se un personaggio privo di forza politica in proprio non sarebbe finito prigioniero dei suoi due designatori, ma altri obiettavano che Conte avrebbe avuto dalla sua non solo le prerogative che gli conferiva la costituzione, ma anche l’arma di ricatto delle sue dimissioni. Queste infatti avrebbero inevitabilmente portato il paese alle urne e per i partiti che l’avessero fatto cadere non sarebbe stato un buon viatico presentarsi agli elettori con il timbro di chi aveva mandato al diavolo un governo formato con tanta fatica.

Comunque fosse, questa situazione si è subito ingarbugliata. In prima istanza perché sia Di Maio che Salvini non hanno resistito a fare i gradassi dopo essere stati ricevuti da Mattarella, rendendo loro noto il nome, dichiarando che il futuro premier sarebbe stato un semplice “esecutore” del contratto da loro predisposto e facendo più che trapelare di avere anche già assegnato tutte le caselle ministeriali. Formalmente questo è un vulnus alle prerogative del Quirinale e alla lettera costituzionale, perché è il presidente che nomina sia il presidente del consiglio che su proposta di questi i ministri. In realtà si era quasi sempre arrivati sia alla individuazione del premier che a quella dei ministri per opera dei partiti, col Quirinale che recepiva, salvo rari casi, le indicazioni che riceveva da questi. Quando il Capo dello Stato aveva bocciato qualche candidatura a ministro, aveva comunque rimesso al partito a cui questa faceva capo l’indicazione dell’alternativa.

Tuttavia questa prassi era sempre stata un dato di fatto, mai rivendicato come diritto. Mattarella era dunque irritato per le scompostezze dei due dioscuri e l’aveva fatto capire rallentando il processo dell’incarico e ostentando una seconda audizione dei presidenti di Camera e Senato, tanto per sottolineare che in quelle Aule e non nei retrobottega dei partiti doveva avvenire il varo del governo. Inaspettatamente a complicare le cose è arrivata la scoperta che il prof. Conte aveva fatto circolare curricula in cui esibiva dubbi accreditamenti presso grandi università straniere. Intendiamoci: il vezzo di far passare come interazioni con atenei internazionali prestigiosi quelle che sono visite e frequentazioni sostanzialmente private delle loro strutture è un costume certo non commendevole, ma piuttosto diffuso fra gli accademici. Una bugia del tipo di quelle che una volta usavano le donne (ma anche gli uomini) di dichiarare meno anni di quelli che avevano.

Data la delicatezza della designazione e la figura non esattamente carismatica del prof. Conte questo era stato abbastanza perché circolasse la voce di un inabissamento della sua candidatura, rilanciando addirittura quella di Di Maio premier (immediatamente stoppata da Salvini).

Alla fine Mattarella ha confermato il nome di Conte evitando due rischi: rigettare la crisi in alto mare e aprire la strada ad un ricorso a nuove elezioni in un clima avvelenato dalle polemiche contro le elite che tradiscono il popolo (tema già buttato lì preventivamente da Salvini).

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