Perché accogliere? Chiedetelo a loro

”Quello che mi ferisce maggiormente è l’indifferenza, questo declino del senso di solidarietà e anche di umanità tra la nostra stessa gente: l’estraneità alle situazioni e alle condizioni disperate in cui gli altri versano non può trovare giustificazioni. Meno che meno per un cristiano”. Si attagliano perfettamente all’oggi queste parole del missionario trentino padre Flavio Paoli, pronunciate invece esattamente nove anni fa, a caldo, al rientro definitivo in Italia, nell’agosto 2009. Una “fuga dall’inferno”, la sua, come titolava il pezzo a firma dell’allora direttore del nostro settimanale, don Ivan Maffeis. “La popolazione è ostaggio di uno dei presidenti più dispotici e tenebrosi del continente africano”, denunciava in quei mesi Giulio Albanese sulle pagine di “Popoli e missione”, parlando del Paese del Corno d’Africa come di una prigione a cielo aperto. E in questi anni nulla è cambiato.

Pavoniano (coloro che fanno parte della congregazione sono conosciuti anche come “Artigianelli”), padre Paoli era stato espulso – non fu l’unico, come Vita Trentina raccontò diffusamente – nel novembre dell’anno prima (2008) dall’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, dal 1993 saldamente alla guida con pugno di ferro del Paese, già colonia italiana, era rientrato con un visto turistico, per lasciare poi definitivamente il Paese. Il missionario originario di Nanno era rientrato in aereo da Asmara negli stessi giorni in cui una settantina di eritrei morivano di sete e di fame su un gommone al largo di Lampedusa. A rendere se possibile ancora più drammatica la vicenda, la testimonianza dei cinque unici sopravvissuti che confermava l’assoluta indifferenza al loro destino delle barche incrociate nella funesta traversata.

Dall’Eritrea – dall’inferno eritreo, denunciato instancabilmente da Alganesh Fessaha, Premio Focsiv 20017 e coordinatrice dell’associazione non governativa “Gandhi”, e da don Mussie Zerai dell’agenzia Habeisha: i nostri lettori conoscono bene entrambi – provengono anche i migranti tenuti in ostaggio per troppi giorni sulla nave “Diciotti” della Guardia Costiera italiana – territorio italiano, dunque – per ordine del governo. 177 persone usate come pedine di un folle “gioco”, oggetto di scambio tra l’Italia e l’Unione europea, per un cinico e chiaro calcolo politico ed elettorale – nel maggio 2019 si terranno le elezioni europee, e da noi ad ottobre si vota per il rinnovo del Consiglio regionale… – del twittatore ministro dell’Interno Matteo Salvini, ora indagato insieme al suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi dalla procura di Agrigento per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio (dovrà pronunciarsi il tribunale dei ministri di Palermo). Una “pagina nera della nostra storia in cui #Costituzione #dirittiumani e #dirittointernazionale vengono calpestati da populismo e razzismo”, ha scritto il Centro Astalli, chiedendo insieme alle altre realtà e associazioni del Tavolo nazionale asilo di farli sbarcare.

Raggiunto dalla notizia il 25 agosto durante il suo comizio alla festa della Lega a Pinzolo, dove si trovava da qualche giorno in vacanza, il vice premier Salvini, che spesso usa le parole sono pietre dimenticando che le parole uccidono talvolta più della spada, ha risposto con toni piccati. E’ una vergogna, ha tuonato, il procuratore di Agrigento invece di indagare un ministro indaghi i trafficanti di essere umani. E si è arrogato il diritto di interpretare il pensiero di tutti gli Italiani, neonati compresi: “Possono arrestare me, ma non la voglia di 60 milioni di italiani. È una vergogna” (a tal proposito, c’è già chi ha lanciato l’hashtag #SessantaMenoUno, invitando a condividerlo…). Repertorio e linguaggio tipico della demagogia, osserva acutamente Paolo Pombeni (si veda a pagina 31), e lo usano sia Salvini sia l’altro vice premier, il pentastellato Luigi Di Maio. Per eccitare l’opinione pubblica indicando capri espiatori. Tali sono, agli occhi di Salvini – che si è buttato alle spalle rapidamente la vicenda incontrando a Milano il premier ungherese Viktor Orban, paladino del gruppo di Visegrad che predica un’Europa di nuovi muri, senza principi e valori comuni (un suo ritratto è a pagina 10) -, i 92 uomini e le otto donne eritrei, bloccati sulla nave Diciotti, e poi finalmente lasciati sbarcare sabato 25 nella notte, grazie alla mediazione – pubblicamente apprezzata da Papa Francesco – della Conferenza dei vescovi italiani (Cei), e in particolare del “nostro” don Ivan Maffeis, oggi sottosegretario della Cei (non a caso, “rendenero” di Pinzolo…), che ha incontrato il ministro. I profughi della Diciotti sono ora nel centro “Mondo migliore” a Rocca di Papa, dove sono stati accolti tra manifestazioni di protesta, ma anche da moti di solidarietà. Qui potranno sperimentare in concreto le quattro azioni suggerite da Papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata del migrante e del rifugiato 2018: accoglienza, protezione, promozione e integrazione. Perché accogliere? La risposta ce la danno i nostri missionari, come padre Flavio: “l’estraneità alle situazioni e alle condizioni disperate in cui gli altri versano non può trovare giustificazioni”. Oppure possiamo andare a cercarla, perché no?, da artisti e testimoni del festival africano “Namounyi Farè”, in programma fino al 2 settembre in Trentino.

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