La Siria vuole rinascere: viaggio in un paese prostrato da 7 anni di guerra dove si cerca ancora pace e sicurezza

Viaggio in un paese prostrato da 7 anni di guerra, dove si cerca ancora pace e sicurezza. Il vescovo melchita: “La Siria è pronta a riaccogliere chi vuole tornare”.

Sommarop2: Il nunzio Zenari: “La testimonianza di fede dei cristiani è fondamentale e così anche il loro amore per una patria da ricostruire”

sommario3: L’Unione Europea risulta la grande silenziosa assente dal tavolo che dovrebbe cercare di porre fine a quella che è definita una “guerra mondiale per procura”

L’incontenibile vivacità delle centinaia di bambini, nati durante la guerra, che incontriamo ad Homs, maschera a fatica il velo di tristezza che copre i loro occhi. Ad assisterli è il progetto umanitario promosso da AMU, Azione per un Mondo Unito, ONG espressione del Movimento dei Focolari, attivo in Siria da quando nel 2011 è scoppiata la guerra ed a cui siamo venuti a dare il nostro piccolo contributo. Sono cristiani di diverse denominazioni, mussulmani sciiti e sunniti: giocano insieme, segno tangibile di speranza per il futuro del paese.  

“Se ci ridanno la pace e la sicurezza, la Siria resusciterà rapidamente perché la gente ha voglia di lavorare ed ha un grande amore per il proprio paese. – ne è fermamente convinto Jean-Abdo Arbach, vescovo dei melchiti, i greco-cattolici, ad Homs, seconda diocesi siriana per numero di fedeli cristiani – Pensavano di abbattere Bashar Al Assad in poco tempo, ma si sono sbagliati. La Siria è pronta a riaccogliere chi vuole tornare: i moderati torneranno, gli estremisti no, perché staranno in occidente che li ha finanziati. Quando sono entrato nel vescovado, l’11 maggio 2014, non appena il centro era stato liberato dall’esercito, mi sono accorto subito che era stato trasformato in quartier generale dei ribelli. Ebbene, ho trovato una scatola di passaporti e documenti vari, verosimilmente appartenuti a coloro che vi avevano dimorato: quale sorpresa quando m’accorsi che ce n’erano anche di statunitensi e di israeliani…”

L’attigua chiesa è stata danneggiata da colpi ripetuti di artiglieria: i muratori, mussulmani, stanno riparando le ultime “ferite” del luogo di culto: “Anche delle icone sacre sono state danneggiate, ma almeno la chiesa non è stata trasformata in qualcosa di poco lecito: era un ospedale con 45 letti, ottime apparecchiature e una stanza intera piena di medicine. Tutto made in France…”

L’incontro con il vescovo di Homs, appena arrivati in Siria, è fondamentale per iniziare a comprendere almeno qualcosa del dramma e del caos in cui è precipitata la Siria. I numeri della tragedia parlano da soli: un paese con 21 milioni di abitanti, conta oggi più di 500.000 morti, un milione e mezzo di feriti di guerra, più di 70.000 rapiti o dispersi, 7 milioni di persone che hanno lasciato la loro casa (2 milioni nei campi profughi in Libano e Giordania o emigrate in occidente), 20.000 bambini senza genitori. I morti, le macerie, la svalutazione hanno prostrato il paese: medici, professori, intellettuali, imprenditori se ne sono andati. Il 70 per cento del territorio è oggi sotto il controllo del governo, ma oltre ai curdi, che hanno in mano il nord del paese, diverse sacche di resistenza sono ancora in mano ai ribelli.

Bashar al Assad, alawita, espressione esoterica sciita, governa un paese a grande maggioranza sunnita, grazie al sostegno dell’alta borghesia e dei militari che hanno rafforzato il loro potere da quando hanno sconfitto l’opposizione. Bashar, nel 2000, ha ereditato il paese dal padre Hafez che l’ha governato per 30 anni secondo i dettami del partito Bath che si ispira a “unità, libertà, socialismo” per creare un paese laico, slegato dall’identità religiosa. Quarantotto anni di potere “familiare”, senza possibilità di opposizione, segnati da aperture democratiche e liberalizzazioni, ma anche da misure oppressive della libertà e da feroci repressioni.

Un clima pesante che ha fatto scoppiare, nel 2011, i primi focolai di rivolta, repressi con il sangue o il carcere, una protesta di piazza di cui si è impossessato rapidamente l’integralismo religioso – politico di una smisurata galassia di gruppi di ribelli armati (attualmente 165 le sigle  “riconosciute” con combattenti effettivi da 105 nazioni!), fra i quali l’ISIS. Il fronte occidentale – saudita, interessato anche alla costruzione di un gasdotto verso l’Europa che attraversi la Siria in competizione con le forniture russe all’Europa, ha scelto a quel punto di sostenere (650 miliardi di dollari in 7 anni) economicamente  e militarmente, l’opposizione “moderata” alla repressione sanguinaria perpetrata dal governo siriano, un sostegno che è andato rapidamente (e inaspettatamente?) ad alimentare le ambizioni e la ferocia dei ribelli più estremisti. L’Unione Europea si è ufficialmente “astenuta” dal sostegno all’opposizione moderata: nei fatti risulta la grande silenziosa assente dal tavolo che dovrebbe cercare di porre fine a quella che è definita una “guerra mondiale per procura”. A fianco della Siria sono intervenuti Russia, Cina e soprattutto Iran. Le conseguenze di questa guerra civile manovrata a distanza dalle potenze economiche e politiche che hanno interessi sul Medio Oriente le ha pagate e le sta pagando la popolazione civile, massacrata dalle bombe dei ribelli, da una parte, e dell’esercito, dall’altra, due fronti opposti con cui è stata costretta a schierarsi: sono poche le famiglie che non piangono morti, rapiti, dispersi o fuggiti all’estero.

I cristiani, prima della guerra, rappresentavano il 10 per cento della popolazione: ora sono meno del 5 per cento. La loro presenza in questa terra martoriata è fondamentale. Ce ne spiega i motivi il Nunzio in Siria, monsignor Marco Zenari che incontriamo a Damasco: “I cristiani, nella piena libertà, ovvero se ne hanno la possibilità e se se la sentono, devono restare. Per almeno due motivi: perché la loro testimonianza di fede è fondamentale e per amore della patria da ricostruire. La attuale patria può piacere o non piacere, ma va ricostruita. La Chiesa ha investito cifre importanti in questi anni per l’aiuto ai cristiani rimasti e per la ricostruzione. In concreto cerchiamo di tenere operativi i due ospedali, quello “francese” e quello “italiano”, a Damasco e quello di Aleppo che sono della Chiesa: sono stracolmi di pazienti a cui non viene chiesto a che religione appartengono, ma solo se sono poveri. Quando ho visitato l’ospedale di Aleppo un anziano mussulmano ricoverato mi ha accolto con un sorriso riconoscente esclamando: “Allah akbar! (Dio è il più grande!) Ha mandato gli infedeli a prendersi cura di noi ed a salvarci!”. Ogni famiglia cristiana che se ne va e una finestra della società che si chiude perché tutti riconoscono che i cristiani hanno fede e sono i più aperti. La presenza della Chiesa – sottolinea Zenari – si esprime con la preghiera, l’aiuto economico, l’impegno nella diplomazia internazionale per porre fine al conflitto, l’impegno per ritrovare i prigionieri e persone scomparse: due vescovi ortodossi sono stati rapiti così come due giovani sacerdoti cattolici, alcuni catechisti e padre Dall’Oglio di cui non abbiamo notizie da 5 anni.”

Nei 15 giorni in Siria abbiamo visto con i nostri occhi il valore della presenza cristiana in questa terra martoriata: una fede provata da dolori inenarrabili, una voglia incredibile di ricostruire case e rapporti, un consapevole amore per la propria patria e per il suo mosaico di culture  e religioni.   

Lucia, Paolo e Maria Stella Crepaz

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