Un aiuto liberante nell’oppressione

E’ stata pubblicata – a quasi trent’anni dalla morte violenta, ucciso nella nella strage perpetrata dagli squadroni della morte la notte del 16 novembre 1989 insieme ad altri 4 gesuiti e a un’inserviente e sua figlia – l’opera di Ignacio Martìn Barò, uno dei gesuiti dell’Uca, l’Università centroamericana di San Salvador, il cui rappresentante più conosciuto era il padre Ignacio Ellacuria.

Con Psicologia della liberazione (Bordeaux edizioni, pp.320, 18 euro), Mauro Croce e Felice di Lernia, i curatori del libro, si propongono di mostrare un nuovo modo di fare psicologia all’interno del contesto di oppressione e di sfruttamento. E’ quanto ha fatto, nel suo piccolo, ma significativo modello, Gerardo Lutte in Guatemala, con la creazione di piccole comunità di giovani che dopo essersi liberati dal consumo della droga e dallo spaccio si autogestiscono in un’educazione “liberatrice” che poggia sulla consapevolezza che la vita va vissuta nel servizio, in bellezza, coltivando la parte migliore di sè e non sprecata.

E’ una specie di “filo rosso” che, al di là dei mutamenti politici e istituzionali, è rappresentato in numerosi contesti latinoamericani coinvolgendo diverse discipline. Dalla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, alla filosofia della liberazione di Enrique Dussel, fino alla psicologia “nuova” di cui scriveva Martìn-Barò: un hombre nuevo in una società nuova.

Il padre gesuita, che insegnava nella prestigiosa Università di San Salvador ed era parroco in un piccolo paese della periferia a contatto con i campesinos, insisteva sul fatto di quanto fosse stretta “la relazione tra alienazione personale e oppressione sociale”. Secondo lui “i disturbi del comportamento” non si esauriscono sul piano individuale, ma trovavano alimento nel contesto sociale chiuso e senza speranza. Addirittura arrivando a sostenere che “mascolinità e femminilità sono, fondamentalmente, un prodotto socio-culturale, non un dato biologico”. Non innanzitutto un dato biologico. Non solo stare bene, ma fare stare bene in “un’idea e una progettualità condivise”. Pensare e progettare a partire dal mondo degli esclusi. Il gesuita Martìn Barò l’aveva ben sperimentato nelle sue settimanali “convivialità” con il mondo povero ed emarginato dei campesinos dell’estrema periferia di San Salvador. Da quelle dimenticate propaggini, da quelle “periferie esistenziali” aveva provato a “pensare alla psicologia educativa dal punto di vista dell’analfabeta, alla psicologia clinica dal punto di vista dell’emarginato” e in particolare “alla psicologia del lavoro dal punto di vista del disoccupato” allo scopo di valutare cosa fare “perché la sua personalità – la personalità del senza lavoro – non si disintegri o perché la sua vita o persino la vita di intere comunità non trascorra senza altro orizzonte, né progetto se non quello della mera sopravvivenza quotidiana”.

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