La gente delle barche

Quando nel 1978 – quarant’anni fa – l’allora direttore della Caritas di Trento, mons. Tullio Endrizzi, persona generosissima e lungimirante, sollecitò alcuni di noi giovani obiettori di coscienza in Servizio civile ad accompagnare in pullman i profughi provenienti dal Vietnam, ricordo che eravamo curiosi e sollecitati positivamente da quella proposta. Si trattò di incontri fugaci di poche ore, quelle poche parole che si potevano scambiare davano però la sensazione di trovarsi di fronte a gente molto provata dalle fatiche del lungo viaggio, ma pure dalla condizione particolare in cui si venivano a trovare, in uno spaesamento totale e per quanto l’accoglienza fosse la più umana e delicata possibile la gente era immersa in un clima di perdita di identità. Quelle persone erano scappate dal Vietnam in barche approssimate e comunque in piccole imbarcazioni ed erano giunte fin qui per poi – la maggior parte – proseguire nelle intenzioni verso l’Austria, la Germania, i Paesi Scandinavi e gli Stati Uniti d’America. Saigon era stata “liberata” dai vietcong – i guerriglieri nordvietnamiti – nella primavera del 1975. Gli ultimi americani avevano abbandonato la capitale del Vietnam del sud alla bell’e meglio in elicottero ammainando l’ultima bandiera….

E’ tornato in mente quel tempo lontano – e quella temperie particolare nell’animo di noi ragazzi tra adolescenza e prima giovinezza – leggendo il libro “I Rifugiati” dello scrittore americano-vietnamita Viet Than Nguyen, che aveva solo 4 anni quando i suoi genitori scapparono in barca dal Vietnam. Allora si usava chiamare questa gente “boat people”, la gente delle barche, i vietnamiti che a centinaia di migliaia scappavano dopo la fine della guerra. Una buona parte di quelli che fuggivano su quelle barche improvvisate – del tutto inadatte ad attraversare i mari – facevano naufragio, non sapremo mai quanti furono, sono numeri –persone, fra cui tanti bambini – persi e dispersi nei labirinti di quelle storie – in quel tempo – quando in Vietnam si guardava con simpatia a chi aveva sconfitto l’imperialismo americano che usava il napalm contro la popolazione inerme nelle campagne e nelle città. In breve periodo era capitato – a quelle latitudini – che i vincitori che avevano intrapreso le loro lotte e le loro battaglie come liberatori (lotte di liberazione, si usava appellarle) si erano tramutati in persecutori e carnefici, la storia della Cambogia da questo punto di vista risulta tristemente esemplare quando i khmer rossi avevano intrapreso uno dei più enormi genocidi del Novecento nell’ignoranza e nell’indifferenza del mondo intero. I teschi che verranno poi ritrovati nelle fosse comuni negli anni successivi attesteranno l’immane portata di quella carneficina ad opera di Pol Pot.

Lo scrittore Viet Than Nguyen, quando i suoi genitori sono fuggiti dal Vietnam, ha trascorso 3 anni a Fort Indiantown Gap e poi ad Harrisburg in Pennsylvania. “Non parlavamo la lingua e ci veniva servito un cibo per noi estraneo”. Enorme spaesamento per i suoi genitori mentre per lui bambino il trauma è stato più sopportabile: “Dal punto di vista mio, invece, era tutto diverso. I bambini, secondo me, sono molto più resilienti. Riescono a sopportare il dolore”. C’è un’altra questione molto delicata e riguarda il modo in cui queste persone si sentono nel nuovo ambiente. “Come ci si percepisce, come ci si sente, come si viene trattati. In ogni modo si tratta di persone che non sono volute nel paese da cui provengono e non sono accettate nel paese in cui arrivano”. Una condizione in cui ci si ritrova come sospesi per aria, né di qua, né di là. Di attesa.

“Quella di rifugiato – osserva Viet Than – è una definizione precisa. Persone che hanno vissuto la guerra e sono state costrette a fare delle scelte estreme in condizioni molto difficili”. Questo scrittore non ha mai voluto utilizzare il termine “boat people”, molto in voga all’epoca: “Non bisogna dimenticare che la metà e anche più dei vietnamiti che sono scappati sono morti. Sapevano che si sarebbero lanciati in un viaggio disperato e allo stesso tempo eroico, bisogna chiedersi perché hanno deciso di farlo”.

Provare ad immaginare oggi, in questo autunno 2018, cosa si prova, come ci si sente a salire su una barca, o attraversare la frontiera di terra tra boschi e radure il confine, dopo essere stati costretti a pagare qualche migliaia di dollari, mettendo a rischio la propria vita in un’odierna, incertissima, pericolosa odissea. Provare insomma a mettersi nei panni e nelle condizioni di essere profughi.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina