L’africano che vorrebbe tornare a casa, ma…

“Lettera ad una madre”, primo romanzo di Christian Kuate, laureato in filosofia a Trento, aiuta ad entrare nel vissuto del migrante

Si presenta come un epistolario autobiografico dal titolo “Negro. Lettera ad una madre” ma è in realtà un romanzo impegnativo e intrigante quello presentato sabato scorso alla libreria Arcadia di Rovereto. Racconta infatti l’Italia (e l’Occidente) dal punto di vista di un immigrato africano partito dal Camerun non per motivi economici o politici, in aereo per capirsi, senza affrontare i disagi del “viaggio”. Una traversèe compiuta soltanto col desiderio di completare gli studi universitari in vista di un rientro nel suo Paese che, a questo punto, non sembra però così certo.

Ne abbiamo parlato in redazione con l’autore stesso – un italiano fluente – che ha però pubblicato il testo in francese nel 2017 e solo recentemente con l’aiuto dell’amico Leonardo Franchini lo ha potuto rieditare in italiano grazie all’interesse della casa editrice Lìbrati di Ascoli Piceno.

“Mi è sempre piaciuto scrivere, ma questo libro rappresenta soprattutto uno sfogo scaturito in un momento difficile della mia vita – premette sinceramente Christian, di religione protestante – quando mi sono trovato senza alloggio, senza affetti e senza prospettive di lavoro, dopo aver ottenuto in 7 anni la laurea in filosofia a Trento. L’ho scritto quasi di getto, ero arrabbiato con il mondo”.

La disillusione nasce da un duplice motivo. Aver compreso che la società occidentale mitizzata in Africa non esiste, anzi che essa presenta molte iniquità e contraddizioni: ad esempio, si ritiene paladina di democrazia ma “in verità presenta elementi di razzismo, xenofobia e discriminazione assunti talvolta ai vertici dello Stato”. La seconda delusione per Christian, che da novello Mosè sperava di aprire una strada felice e vincente anche per i suo connazionali, è stata quella di constatare che con la pelle nera e il passaporto camerunense si rimane sempre migranti: “Non ci si libera mai delle proprie origini – riflette amaramente – legati ad esse mediante le viscere, ci giriamo solo intorno, osservando il resto del mondo come un animale domestico legato al palo”. Il resto lo fanno atteggiamenti di pregiudizio ancora presenti nella società italiana.

Anche per chi ha frequentato l’Università e si è laureato? “Certamente, purtroppo. Mi sono sempre sentito un privilegiato rispetto ad altri connazionali arrivati con i barconi – spiega – ma nel libro spiego come comunque la vita da immigrato non è facile. E’ quasi impossibile, infatti, avere lo stesso trattamento e le stesse possibilità – sul piano occupazionale, ad esempio – del Paese che lo ospita. L’occidentale è favorito, perché è a casa propria, l’immigrato non lo è”.

E’ la possibilità di rientrare nel proprio Paese? “E’ il desiderio espresso nelle lettere alla mamma, ma deve fare i conti col fatto che egli non troverà la realtà che ha lasciato. Chi torna dall’estero, subisce delle aspettative che lo mettono in difficoltà. Per questo spesso preferisce rimanere in Italia, anche se questo è un impoverimento per il Paese d’origine”. Il libro si chiude su questa tensione irrisolta, rimane a livello di esperienza personale, senza abbozzare teorie generalizzate. Ha il merito comunque di entrare nel vissuto del migrante, con tanti elementi soggettivi e qualche dimensione universale, come l’affetto materno e la nostalgia dei propri luoghi. Un testo tipico della lettera migrante, che ben si presta come stimolo per un confronto sulla vita quotidiana dei fratelli emigrati.

Un ultima particolarità rende il libro originale, la traduzione dal francese: è stata realizzata da un gruppo di studenti in un laboratorio didattico coordinato dal prof. Gerardo Acerenza. Un secondo libro di Kuate sarà tradotto nel prossimo semestre.

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