Come “liberare” la pena

Un convegno nel ventennale di Odos ha rilanciato l’esigenza di operare per una giustizia riparativa

Bolzano – Viviamo in una società nella quale le persone si sentono insicure. Ma è un’insicurezza che deriva dallo smarrimento dei punti fermi, delle convinzioni forti, non dall’aumento dei reati. Tutte le statistiche ci dicono che i reati sono in diminuzione, non solo in Italia ma in tutta Europa. Ciononostante ci si sente insicuri.

Quando si parla di carcere, è diffusa l’idea secondo la quale più persone mettiamo dietro le sbarre, più siamo sicuri. Ma è dimostrato che il carcere come tale non migliora l’uomo (e nemmeno la società), mentre le pene alternative possono rappresentare percorsi di crescita: per chi le sconta, per chi li accompagna, per la società intera. La Costituzione repubblicana – frutto di un livello di cultura e di civiltà che andiamo perdendo – dice (art. 27) che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non servono per “far marcire in galera” le persone, ma per far loro recuperare quell’umanità che sembrano aver perduto (ammesso che sia così).

Un modello di giustizia più umano, dunque, per il quale la pena non significhi necessariamente carcere e anche le vittime possano trovare un percorso di riconciliazione e riappacificazione con la propria storia. Se ne è parlato venerdì 1° marzo, in occasione del convegno “Liberare la pena” organizzato a Bolzano per celebrare i vent’anni di attività di Odós, il servizio della Caritas diocesana indirizzato a detenuti, ex-detenuti, persone in attesa di giudizio o private della libertà. “Una pena cattiva, ‘buttare via le chiavi’, restituisce alla società individui con una capacità di delinquenza aumentata. Le persone però non sono i reati commessi, dobbiamo ricordarcelo”, ha detto Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio Odós. “Solo attraverso percorsi reali di reinserimento lavorativo e sociale possiamo contribuire, insieme, alla creazione di una società più umana e sicura”.    

Hanno partecipato alla discussione, oltre agli operatori locali del settore, anche pedagogisti di caratura nazionale come Duccio Demetrio, professore dell’Università Bicocca e fondatore della LUA, e Ivo Lizzola, professore ordinario presso l’Università di Bergamo. Il primo ha sottolineato come la scrittura, per chi è in carcere, rappresenti un viaggio adatto a rivisitare la propria vita, una cura per l’esistenza che serve a far intravedere una prospettiva per il futuro; il secondo ha suggerito come i percorsi educativi possano acquisire significato solo se viene data la libertà all’individuo di sbagliare o di opporre resistenza. Toccante la testimonianza di Manlio Milani, marito di una delle vittime della strage di piazza della Loggia e fondatore della Casa della Memoria, centro di documentazione sulla strage bresciana e la violenza terroristica.  “Restare chiusi nella dimensione di vittime significa portare dentro di sé quella rancorosità che non permette di vivere e capire il perché degli accadimenti”, ha detto Manlio Milani che, nell’ottica di un percorso di giustizia riparativa, ha partecipato e promosso con altri familiari di vittime del terrorismo un gruppo di dialogo con ex appartenenti alla lotta armata. “Bisogna saper alzare lo sguardo anche sul colpevole, che è una parte della storia del reato ma non è nella sua interezza il reato”. 

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