L’elogio della compassione

somm1. Nell’ultimo libro dello psicologo padre Erminio Gius, s’indagano le modalità umane per “partecipare” alla divina misericordia

somm2: “L’uomo di natura non è misericordioso, però può comprendere la misericordia di Dio proprio attraverso la compassione”

E’ uscito in febbraio “Compassione”, edito da Edb di Bologna, ultimo libro di padre Erminio Gius, cappuccino, che ha dedicato la propria vita allo studio e alla ricerca psicanalitica come docente presso l’Università di Padova. Un uomo di fede e di scienza, che all’interno di queste ultime pagine ha voluto indagare un tema fondamentale e fondativo dell’essere umano, elemento normativo del suo vivere associato. Ne parliamo volentieri nel tempo “privilegiato” della Quaresima.

Padre Gius, come nasce l’idea di questo libro?

Ecco, l’idea è nata proprio quando sono andato in pensione, nel 2016. Questo evento di vita personale è caduto in corrispondenza con l’Anno Santo straordinario della Misericordia. Con Papa Francesco per la prima volta si è parlato di misericordia e compassione in termini sovrapponibili. In un contesto differente da questo, ciò che scrivo in questo libro avrebbe probabilmente subito pesanti critiche da parte della Chiesa.

Perchè?

Innanzitutto, c’è da dire che scrivendo “Compassione”, sono partito da un pensiero laico, libero da ogni tipo di natura devozionale. La tesi di fondo si basa però sull’Antico Testamento, dove sta scritto che “L’essenza di Dio è la misericordia”. Ma l’uomo di natura non è misericordioso, è fatto per l’autoconservazione. Può però comprendere e partecipare alla misericordia di Dio proprio attraverso la compassione, che è invece sua caratteristica. Il cervello umano, infatti, è predisposto per essere compassionevole.

Cosa significa, allora, essere compassionevoli?

Direi che la compassione è a fondamento dell’assunzione di responsabilità. Significa non astrarsi, e dedicarsi invece alla realtà umana. Purtroppo anche certi uomini di Chiesa troppe volte parlano in modo astratto, quasi disinteressandosi della carne umana. Tutta la teologia morale ha privilegiato, infatti, il dolore come espiazione del peccato piuttosto che evento in sé e per sé. Se tu privilegi il dolore e quindi la condizione di fragilità umana, invece, sviluppi il significato forte di una compassione verso te e verso gli altri. Compassione vuol dire allora vivere l’esperienza della propria fragilità come una ricchezza.

Può significare anche una rinuncia al giudizio?

No, non bisogna rinunciare ad un giudizio. Senza non ci potrebbe essere giustizia. L’onnipotenza di Dio comprende sia misericordia che giudizio, infatti. E anche per l’uomo dire che la compassione nega la sentenza sarebbe erroneo. Semmai, il problema è che le nostre modalità di giudicare hanno delle categorie cognitive, che ci permettono di ridurre al minimo una realtà complessa, da cui nascono però i cosiddetti stereotipi, che si allontanano inevitabilmente dalla giustizia. A questo proposito, in un passaggio del libro, parlo di “devianza”, intesa come passaggio da un comportamento ad una certa attribuzione di identità. Insomma, la logica del “fai e quindi sei”.

Il filosofo francese Jean-Paul Sartre diceva proprio questo, è impossibile definire una volta per tutte un’identità umana…

Nella prima parte del mio libro faccio ampio riferimento alla parabola del figlio prodigo. La grandezza del padre buono, in questo caso, è proprio quella di lasciare libero il figlio. Lo consegna al suo destino, anche al costo di vederlo morire. In tal senso penso proprio che il peccato originale sia stato una benedizione per l’uomo, perché gli ha permesso di raggiungere una responsabilità nei confronti di sé stesso, della propria limitatezza, ma soprattutto verso degli altri. Senza il peccato originale l’uomo sarebbe stato sicuramente più felice, ma stupido.

Ci sono volte che Dio ci lascia così liberi da sembrare muto, o peggio ancora non esistere…

In Dio, spesso, si trova silenzio davanti al dolore. Nel mio “Compassione” faccio riferimento a Giobbe, che pur sapendo non esserci una risposta, ha comunque la sfrontatezza di chiamare in causa Dio. Non trovando da Egli riscontro, si abbandona nella sua incomprensibilità. E vale anche per noi, tutti i giorni. Se credi nell’esistenza di Dio ti devi abbandonare a Lui nel problema della fede, mantenendo chiara e precisa l’idea che il dolore non ha una spiegazione. In questo senso Dio davvero sembra una contraddizione: o ti abbandoni a Lui, nonostante tutto, o ti disperi. La vera fede, secondo me è quella che accetta questo mistero.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina