Sull’Arca impariamo a volerci bene

La parola a un gruppo di genitori volontari che sono stati i “pionieri” di questa associazione

Nel corso dei suoi 23 anni di vita l’Arca (Associazione ricerca comportamento alimentare) – nata nel 1996 su iniziativa di un gruppo di genitori – è diventata sempre più – in modo graduale e costante e non senza aver superato diffidenze e difficoltà – un punto di riferimento, un’ancora di salvezza, un approdo per molte famiglie trentine alle prese con i disturbi alimentari dei loro figli.

Molti genitori non sapevano dove sbattere la testa, cosa fare, come affrontare questo tipo di patologie che hanno bisogno di essere “combattute” nei tempi lunghi. Alla sede dell’Arca in via Bronzetti a Trento siamo seduti attorno ad un tavolo insieme ad un gruppo di genitori volontari che sono stati i “pionieri” di questa associazione quando attorno c’era il deserto e pochi ci credevano e ogni famiglia era costretta ad affrontare in solitudine (quanta solitudine, quanta angoscia!) questi problemi. Le cure erano private e non c’era altro. Nella sede dell’Arca (aperto ogni martedì e giovedì dalle 17 alle 19) continuano ad arrivare persone in cerca di aiuto. Sono ragazze e giovani donne, ma i maschi sono in aumento; anche la forbice d’età si è allargata: non sono più solo adolescenti ma anche minorenni e adulti.

Si lavora in stretta sinergia con il Centro per i disturbi alimentari dell’Azienda Sanitaria diretto dal dottor Genovese, ma le necessità sono tante, la fila s’allunga e i tempi d’attesa pure.

Gli operatori-volontari dell’Arca si prodigano, fanno quello che possono con dedizione e cura, non si risparmiano. Accolgono le persone, le rivedono e in questi anni hanno acquisito esperienza e professionalità. Certo, non professionalità “medica”, ma empatia umana, questa sì, sapere indirizzare, consigliare, entrare in sintonia, dare fiducia e soprattutto mettere una parola di speranza che è un aspetto e un messaggio fondamentale. Ancora adesso si ha difficoltà a parlare di anoressia, bulimia, obesità, c’è come uno stigma sociale – quasi vergogna – che incide e limita un approccio, l’inizio di un percorso di cura. Ma –ci assicurano all’unisono ed è un appello forte, il loro – non bisogna mai disperare perché dalla malattia si può uscirne, non bisogna scoraggiarsi anche nei momenti in cui sembra ti cada addosso il mondo e ci si ritrova impotenti. Ecco perché è importante rivolgersi a qualcuno, rompere la solitudine, agganciarsi a chi ne sa qualcosa perché magari ha passato le stesse forche caudine, le medesime strettoie di sofferenza.

Un occhio particolare devono metterlo anche gli insegnanti – insistono all’Arca – essere attenti a quel che succede in classe, le dinamiche di gruppo, una ragazza che si rabbuia, che è cambiata, che si isola. In questo caso è fondamentale confrontarsi con i genitori, non lasciare passare il tempo, perché la “tempistica” – insistono – è fondamentale. Sapersi accorgere, “vedere”, se non prevenire, significa limitare il dilagare della patologia. Quelli dell’Arca non curano ma contribuiscono a far emergere i problemi, anche con l’Ente pubblico, l’Assessorato, l’Azienda sanitaria, sono un pungolo. Loro “vivono” sul volontariato, grazie alle tessere e al 5 per mille, qualche contributo, non altro.

Non esiste nessuna bacchetta magica, magari! Ma serve tanta pazienza, occorre mettere in conto i tempi dilatati, non scoraggiarsi mai. E confrontarsi con chi ha già superato quelle stesse difficoltà, quelle colonne d’Ercole.

Solo così si può controllare e diminuire l’ansia che insorge e pervade un nucleo familiare, che i genitori si confrontino, perché l’intervento del genitore singolo da solo può essere controproducente a contrastare questa malattia che prende figli unici, e fratelli, gemelli insieme o un gemello e l’altro no: è imprevedibile, ma quello che è sicuro – ribadiscono i volontari dell’Arca – è il bagaglio di sofferenza che avvolge anche i fratelli che non sono direttamente interessati. Un occhio di riguardo deve essere rivolto alle ragazze minorenni e ai ragazzi minorenni, tenendo ben presente che tutti i casi sono diversi – hanno una loro genesi, una loro storia e durata -, anche se i sintomi sono uguali, le cause sono le più diverse.

E allora, che fare? L’appello rivolto ai genitori è che si può guarire, che non si fermino, che non disperino. Unire le forze, fare rete, tenersi in contatto, non disperare, mai. E’ un messaggio forte di speranza quello che arriva da questo piccolo, ma solido, umanissimo sodalizio composto da persone motivate, speranzose e decise a credere che è possibile trovare il bandolo di una fuoriuscita, di una guarigione, di un rinascere a nuova vita.

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