La Settimana Santa di A. nel nord del Libano

La risposta umanitaria alla crisi dei rifugiati siriani resta inadeguata. Discriminazioni, vessazioni, ostacoli nell’accesso al cibo, all’alloggio e all’impiego

Tel Abbas, 27 marzo 2019 – La Settimana Santa di A. è cominciata ieri. Con largo anticipo. Col lavoro è andata bene. Il padrone lo ha trattato meglio del solito, questa settimana. Fatica tanta, soldi pochi, come sempre. Ma almeno qualcosa da fare l’aveva trovato. E bastano quelle poche lire libanesi a fare la differenza tra la fame nera e un’esistenza un po’ meno grama e precaria per lui e per la sua famiglia, che lo attende in quelle quattro mura al grezzo vicino al campo profughi informale a Tel Abbas, nella regione dell’Akkar, che da tre anni chiamano casa. La sua condizione è simile a quella della maggior parte dei rifugiati siriani in Libano, in “lotta per la sopravvivenza in condizioni spesso disperate, a causa di una diffusa discriminazione e di enormi ostacoli nell’accesso al cibo, all’alloggio e all’impiego”: quello che un rapporto di Amnesty International denunciava tre anni fa, nel 2016, – con l’aggravante che la risposta umanitaria delle Nazioni Unite alla crisi dei rifugiati siriani restava “inadeguata” – è vero anche oggi. Anzi, la situazione è perfino peggiorata.

Gli occhi di A. si chiudono per la stanchezza, l’incedere è lento, fino al posto di blocco dell’esercito. Il pensiero è già oltre, rivolto alla moglie e ai figli, che aspettano i soldi di papà. “Ehi tu, dico a te, vieni qua”. A. si irrigidisce. D’istinto, porta una mano al petto, dove sotto la camicia custodisce la paga della settimana. Poche migliaia di lire, peraltro: il clima nei confronti dei rifugiati è mutato, c’è una forte discriminazione e quelli che riescono a trovare un impiego vengono sfruttati dai datori di lavoro con paghe estremamente basse.

Il soldato che lo ha chiamato è poco più che un ragazzo. Gli intima di mettersi da una parte, con tono sbrigativo. C’è un problema. A. non capisce. Pensa solo a chi lo aspetta al campo. Ma non si preoccupa. E’ capitato altre volte. Tocca aspettare, pazienti. Ma sì, il giovanotto vuole solo farmi capire chi è che comanda, pensa. Il tempo però passa. Arriva un altro soldato. “Devi venire con me”. Ahi, non va bene. Ma non c’è altro da fare che ubbidire. Da quando, nel 2015, il governo libanese ha interrotto la registrazione, da parte dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), dei nuovi arrivati e ha introdotto nuove norme che hanno reso più difficile il rinnovo del permesso di soggiorno, la situazione dei rifugiati siriani in Libano si è fatta ancora più difficile e ancora più precaria. Privi di status legale, corrono il rischio di essere sfruttati da chi è in posizione di potere – dai signori della guerra ai datori di lavoro fino anche alle forze di polizia, come ha denunciato Amnesty International. Arresti arbitrari, imprigionamenti e rimpatri forzati. I flussi di rifugiati hanno posto un peso considerevole sulle spalle del Libano, riconosceva Amnesty International, chiedendo alle autorità di rimuovere “le dure limitazioni” che hanno creato “condizioni di pericolo per i rifugiati e rafforzato un clima di paura e d’intimidazione”. Conferma un rapporto dell’Unhcr: la politica di residenza del Libano rende difficile per i siriani mantenere lo status legale, aumenta i rischi di sfruttamento e abuso e limita l’accesso dei rifugiati al lavoro, all’istruzione e all’assistenza sanitaria (il 74% dei siriani in Libano non ha la residenza legale e rischia la detenzione per presenza illegale nel paese).

A. scopre che c’è una condanna che lo riguarda. Era stato fermato vicino a Beirut, dove si era spostato in cerca di lavori a chiamata (che spesso non arrivano), e gli avevano trovato irregolarità nei documenti. Senza che A. ne avesse contezza, era stato processato e condannato. “Devi scontare 20 giorni di prigione”, gli dicono ora. Ad A. crolla il mondo addosso. Ma non c’è nulla da fare.

Al campo la notizia arriva nel tardo pomeriggio. Subito, i volontari di Operazione Colomba, corpo di pace dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, si attivano. Si chiama un service, un taxi, e si accompagna la moglie di A. alla prigione, che è vicina al posto di blocco. Alla moglie di A. viene detto di tornare il giorno successivo; potrà vedere il marito, che, in carcere, è privo di tutto. E in carcere, dai pasti ai prodotti per l’igiene alle sigarette bisogna pagarsi tutto.

La moglie di A. torna il giorno seguente. Con lei c’è M. e un altro volontario di Operazione Colomba. Lunga la strada si sono fermati a comprare quattro polli, da mangiare tutti insieme durante la visita, lei, il marito arrestato e i volontari.

La presenza dei volontari internazionali talvolta aiuta a mitigare l’arroganza di chi detiene il potere. Questa volta non è così. Nonostante quanto assicuratole il giorno prima, non le viene concesso di vedere il marito. Deve accontentarsi di scambiare poche parole col marito, che resta invisibile, nascosto da una pesante porta di metallo.

“La moglie mette una mano sulla porta blindata. Cerca un qualsiasi contatto, congelato dal freddo del ferro. Dice che l’avvocato sta lavorando, che noi volontari stiamo contattando delle associazioni. E lui a sua volta la rassicura sulla sua salute, le dice che lo trattano bene”, scrive M. qualche giorno dopo sul sito del corpo di pace (www.operazionecolomba.it). E racconta: “Dalla cella esce un tanfo che ci dice ciò che A. non vuole dire alla moglie. Racconta di 15 corpi stipati in due stanze di quattro metri quadri. Dormono per terra, su dei materassi schiacciati più della loro dignità. Nel rituale della cattura, dopo essere fermati, si viene sistematicamente umiliati. Portati ai servizi segreti militari, spogliati nudi, rivestiti, colpiti e insultati come animali. Come animali vengono poi ammassati. Una rabbia immotivata riservata nei tempi e posti più scuri della storia a chi viene privato dei propri diritti basilari. Sempre più persone vengono fermate e arrestate, a gruppi di venti o trenta al giorno. Dei 15 in cella, 13 sono siriani con documenti scaduti”.

E dire che meno di un mese prima, il 9 marzo, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, a conclusione di una visita di due giorni in Libano, riconoscendo la crescente insofferenza del Libano nell’ospitare “oltre un milione di siriani per tanti anni”, aveva espresso la speranza che non ci fossero ulteriori restrizioni, “che potrebbero alimentare la tensione sociale”.

“Chissà cosa pensa U. davanti a quella sagoma scura a puntini da cui esce la voce del marito. Dopo tutto quello che hanno passato poi…”, commenta M., stupito “della forza che A. ci ha mostrato da dietro la porta blindata”. E conclude: “Sa che arrendersi significa fare il loro gioco, farli vincere. Invece lui si preoccupa dei suoi compagni di cella, dei suoi figli, e di noi volontari-amici-figli a nostra volta. Dimostra amore invece che rabbia. Dice che vorrebbe uscire prima che parta P., per salutarla. Secondo me ha vinto lui. E io finché ci saranno persone come lui ho speranza”.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina