Alla ricerca dell’alternativa perduta

Il PD a guida Zingaretti non sembra capace di far convivere una decisa svolta progettuale che rompa con gli schematismi delle sue vecchie ideologie con una strategia politica coraggiosa

Dunque il PD di Zingaretti ha celebrato la sua prima solenne riunione con una segreteria ed una direzione rinnovate. E’ avvenuto dopo l’ennesima prova di interpretazione equivoca, cioè le amministrative in Sardegna che non hanno visto né una decisa ripresa né una irreversibile debacle del partito, ma con alle spalle la prova delle europee e amministrative che lo avevano riportato al secondo posto fra i partiti (scavalcando M5S), anche con la tenuta di qualche roccaforte storica.

L’aspettativa era vedere se il nuovo gruppo dirigente, ma anche quelli di opposizione interna sarebbero stati capaci di dare una lettura coraggiosa di quel che era avvenuto. Questo francamente non è successo. Zingaretti non è andato oltre il fare appello all’unità di fronte ai pericoli che si stanno correndo e il riproporre il frusto ritornello della “sinistra larga”.

A che cosa serva questo, a parte dare un po’ di soddisfazioni a Boldrini, Errani, Bersani e piccola compagnia cantante, non si capisce. Anche col migliore ottimismo quella sinistra larga al momento raccoglie più o meno un terzo dell’elettorato che va alle urne. Troppo poco per produrre una alternativa, anzi persino per produrre un argine alla destra che continua a crescere in modo costante, perché non si espande solo la Lega, ma anche Fratelli d’Italia, partito che ormai sembra attestarsi più o meno agli stessi livelli di Forza Italia. La stessa cosa si dice per quello che con speranza viene definito come la “forza ambientalista” che sempre nelle tornate di voto a cui abbiamo assistito è lontanissima dal far pensare a presenze del livello dei Verdi tedeschi.

Naturalmente ci si può sempre cullare nell’illusione che in quel 45% circa di elettori che disertano le urne ci siano schiere che non aspettano altro che risvegliarsi dal sonno per correre a votare PD (oppure, come pensa qualcuno, in un partito di centro a lui alleato). Manca purtroppo qualsiasi prova che ciò sia quanto ci si può aspettare, e del resto anche Berlusconi, per parlare dell’altra sponda, pensa la stessa cosa, cioè che fra gli astenuti ci siano nascoste le falangi che correranno a sostenerlo per consentirgli di contenere Salvini. Ma anche al leader di FI si può far notare quello che abbiamo appena ricordato al PD.

Ciò di cui Zingaretti e la sua squadra, non meno dei suoi oppositori interni, avrebbero bisogno è individuare un progetto autorevole e credibile intorno a cui coagulare un nuovo ampio consenso. Intendiamoci: a parole ne sono perfettamente convinti, tanto che annunciano per l’autunno una tre giorni a Bologna proprio per raggiungere quell’obiettivo. Ciò che ci fa dubitare della bontà dell’iniziativa è vedere che tutto resta nelle mani di una nomenclatura di politici di professione, cioè di quello che è più lontano dalle attese della gente, che ha mostrato di farsi catturare dal fascino irresistibile del cambiare le persone di riferimento (prima ancora che le aree politiche).

Ragionando da un punto di vista di politica politicante si capisce bene che Zingaretti e i suoi non possano permettersi slanci creativi, anche ammesso che ne fossero capaci. In autunno pendono sul loro capo tre tornate di elezioni regionali particolarmente difficili: Umbria, Calabria e particolarmente Emilia Romagna, il cui significato simbolico è facilmente comprensibile. Il PD non vuole correre rischi in questi contesti e pensa che sia imprescindibile tenersi stretti tutti gli alleati possibili, che magari in qualche caso, come in Emilia, hanno anche un po’ di consistenza. Ecco il perché del mantra della “sinistra larga”.

Ci permettiamo però di far notare che il calcolo fatto in questo modo è miope. Puntando su coalizioni preventive il PD finirà, come è sempre stato finora, a dover garantire in anticipo posti a questo e a quello, precludendosi la possibilità di rinnovare radicalmente le sue liste pescando dalla società civile. Dovrebbe tenere conto che le coalizioni conviene farle ad urne chiuse: tanto se quei cespugli otterranno voti a sufficienza non avranno alternative a governare con lui, perché altrimenti si consegnerebbero le regioni alle destre, ma allora si distribuiranno le risorse sulla base di quel che ciascuno ha avuto e non sulla base dei ricatti che si possono fare sulla base delle presunzioni.

Al momento neppure il PD a guida Zingaretti sembra capace di far convivere una decisa svolta progettuale che rompa con gli schematismi delle sue vecchie ideologie con una strategia politica coraggiosa di fronte alle scadenze elettorali che si troverà davanti in autunno.

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