L’autonomia regionale e il nodo delle risorse

Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna drenerebbero risorse, peraltro prodotte nel loro territorio, a discapito del resto del Paese?

Di regionalismo abbiamo parlato su Vita Trentina del 14 luglio, evidenziando come il trend sia quello di un avvicinamento delle autonomie ordinarie a quelle speciali. Ne sono segni evidenti la modifica della Costituzione del 2001, le ulteriori riforme costituzionali vanamente tentate nel 2006 e nel 2016, e l’attuale rilancio da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che già avevano siglato il 28 febbraio 2018 un accordo preliminare con il precedente Governo per condizioni particolari di autonomia. Un rilancio che oggi infiamma il dibattito politico, specie di fronte a quello che forse è il vero nodo: la redistribuzione delle risorse pubbliche per far fronte alle nuove funzioni delle tre regioni.

In teoria questa redistribuzione è invocata «a parità di spesa»: lo Stato trasferisca cioè alla regione, assieme alle competenze, anche quanto spendeva in quel territorio per esercitarle; anzi, anche meno, se si applicheranno i «fabbisogni standard» per una gestione più efficiente dell’attuale, quindi con un risparmio rispetto alla spesa storica.

Il problema, però, sta nel «come» attuare questo principio. A quanto si sa, questo trasferimento di risorse avverrebbe devolvendo alla regione una parte del gettito di tributi maturati nel territorio (Irpef o Iva). Ma la devoluzione – sospettano i critici – corrisponderebbe al costo delle nuove competenze soltanto il primo anno, perché poi il gettito dei tributi, allineandosi al PIL, sarà via via maggiore della spesa, sostanzialmente statica, generando un avanzo. In tal caso le tre regioni del nord drenerebbero risorse, peraltro prodotte nel loro territorio, a discapito del resto del Paese. Questo avanzo potrebbe poi aumentare in relazione ad altri aspetti incerti: a) se e come si compensa l’eventuale caso inverso, cioè una minor crescita del gettito tributario rispetto alla spesa; b) se, date le difficoltà pratiche, il fabbisogno finanziario sarà effettivamente rapportato a uno standard efficiente; c) come si farà fronte alla (instabile) spesa per investimenti.

Del resto, nel possibile vantaggio finanziario per le tre regioni troverebbe risposta un’altra spinosa questione: il «residuo fiscale», ossia la differenza fra le entrate e le spese di tutte le amministrazioni pubbliche in ciascun territorio. Questa differenza è positiva per il centro-nord (con eccezioni, fra cui il Trentino) e impietosamente negativa per il sud. Dagli abitanti settentrionali sarebbero cioè prelevate attraverso la fiscalità più risorse di quelle loro restituite sotto forma di servizi pubblici. Benché i metodi di calcolo siano oggetto di molte critiche e sia logico che le aree più ricche offrano un maggior contributo alla spesa pubblica, l’aspirazione a un riequilibrio è accantonata ma non sopita.

Comunque, senza trarre conclusioni che spettano alla politica, si può osservare che la devoluzione di tributi generati dal territorio è il modello finanziario delle autonomie speciali: ha carattere federale, premia l’efficienza e sarà rafforzato, a dispetto delle critiche, se esteso in modo più ampio anche alle regioni ordinarie. Sarebbe forse più utile sperimentare il modello nella sua interezza, senza troppe clausole correttive rimesse al negoziato politico, se non per bilanciare autonomia e coesione sociale attraverso fondi perequativi e solidali (come per il Trentino) e senza strappi fra porzioni del Paese. Un vero Stato regionale non iniquo è un obiettivo possibile.

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