L’uso strumentale dei profughi curdi

Invasione dell’esercito turco nel nord della Siria sotto controllo curdo. (Foto: Krc)
Alcune amare riflessioni dopo l’aggressione turca: lo stato confusionale di Trump, il ritardo dell’Unione Europea che teme anche una nuova invasione di immigrati dalla Turchia

L’aggressione turca contro i curdi siriani, giusto al di là dei confini meridionali, sta inevitabilmente trasformandosi in una vera a propria guerra con la Siria. Il sanguinario dittatore di quel paese, Bashar al-Assad, che dopo ben otto anni di guerra civile sta riprendendo il controllo del territorio, ha colto al volo l’occasione per muovere il proprio rinato esercito contro le truppe di Ankara, entrate in Siria con la scusa di cacciare la minoranza curda che da secoli vive in quella regione.

Una “semplice” operazione di pulizia etnica sta trasformandosi in conflitto aperto. Di fronte a questo caos e all’imprevedibilità degli sviluppi militari si possono già trarre alcune amare riflessioni.

La prima, forse la più grave, riguarda l’uso strumentale che si sta facendo degli sfollati e dei profughi, che ormai da anni subiscono le terribili conseguenze delle guerre mediorientali. Milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case e i propri affetti per sfuggire alle violenze, ma che allo stesso tempo servono da arma politica e di ricatto nelle mani di leader privi di scrupoli.

Il “Sultano” di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, usa infatti i tre milioni e mezzo di rifugiati come minaccia nei confronti dell’Unione europea, se dovessero arrivare sanzioni economiche o di altro tipo. Una UE che lo paga profumatamente (3 miliardi di Euro già versati e altri 3 promessi), poiché teme che la Turchia riapra le porte della rotta balcanica, spingendo questa massa di disperati verso il nord.

Al contempo Erdogan giustifica l’intervento in Siria non solo per cacciare i curdi dai confini, ma addirittura per “ricollocare” i profughi siriani, da lui “ospitati” presso i confini, nei territori che le sue truppe dovessero conquistare. Come se si trattasse di una merce qualsiasi da piazzare in un posto qualsiasi, indipendentemente dai luoghi d’origine da cui provengono queste persone.

In aggiunta altri nuovi sfollati, i curdi siriani, vanno a rinfoltire questo “popolo” di cittadini senza più patria né casa, in balia delle politiche di potenza e dei conflitti senza fine.

Una seconda considerazione va fatta sullo stato confusionale in cui versa il presidente americano Donald Trump. Nel giro di una settimana ha dato luce verde ad Erdogan per l’intervento militare, dopo un colloquio telefonico notturno. Ha poi minacciato conseguenze economiche sconvolgenti contro la Turchia, una volta avviata l’invasione. Ha dichiarato di non volere abbandonare i curdi, ma ha ritirato i suoi soldati a protezione. Ha poi twittato che i curdi non sono alleati degli Usa perché non li hanno aiutati nello sbarco in Normandia nella seconda guerra mondiale!

La massima potenza planetaria nelle mani di un uomo fuori controllo e privo di qualsiasi visione strategica preoccupa non poco. Che al caos mediorientale si aggiunga anche il caos delle azioni americane nella regione è un fatto estremamente allarmante, anche perché questo vuoto lascia campo libero a Russia e Iran di esercitare una crescente influenza non solo in Siria ma in tutto il Medio Oriente, squilibrando ancora di più gli interessi in gioco.

Di fronte a questa novità geostrategica, ed è questa la terza riflessione, l’Europa arriva sempre in ritardo e con scarsissima efficacia. Lasciamo pure da parte la decisione di un embargo di tutti i 28 sull’esportazioni di armi alla Turchia: la mossa era ovvia e scontata, ma sicuramente innocua dal momento che il Sultano di Ankara (fra il resto membro della Nato) ha avuto tutto il tempo per riempire i propri arsenali delle armi di cui aveva bisogno.

La decisione andava semmai presa in sede preventiva: era infatti noto a tutti che Erdogan già da mesi, se non anni, stava programmando l’invasione della Siria. Addirittura un mese fa aveva presentato alle Nazioni Unite una mappa della Siria, da lui ridisegnata, in cui la fascia nord, profonda 32 km e lunga oltre 300, veniva colorata diversamente dal resto. Una vera UE, una volta appresa la decisione di Trump di ritirare i marines, avrebbe dovuto agire immediatamente mandando proprie truppe in sostituzione a quelle americane per evitare l’aggressione turca.

Ma qui stiamo chiaramente sognando, sia perché l’UE non ha la capacità politica di agire sia perché è soprattutto preoccupata da una nuova invasione di immigrati dalla Turchia. Infine, l’ultima amara considerazione è il progressivo indebolimento della democrazia: innanzitutto in Turchia, dove lo stato di guerra non farà altro che rendere ancora più precario quel poco di rispetto dei diritti umani e delle regole democratiche che ancora si sono salvate dalla stretta autoritaria imposta da Erdogan in questi ultimi anni. E dire che un paio di decenni fa si era ancora fiduciosi che in quel Paese si potesse affermare un modello democratico di stampo europeo. Il successivo congelamento delle prospettive di adesione e l’arrivo al potere di Erdogan hanno affossato tale speranza e queste ultime vicende non fanno altro che confermarlo.

Ma ancora più che in Turchia, lo stato di salute della democrazia che ci preoccupa di più è quello americano: un presidente che può agire su base personale, senza richiedere il consiglio degli organismi a ciò preposti e neppure consultare i membri del proprio partito, come ha fatto Trump in quest’ultima vicenda, è un vero e proprio campanello d’allarme sulla solidità di una delle più antiche democrazie del mondo. Speriamo di sbagliarci, ma i segnali non sono incoraggianti.

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