I sacrestani e le sacrestane non vanno in pensione

Sacrestano

Lo spunto

Dobbiamo sostenere e apprezzare i sacrestani. Quando in chiesa si è soli, in un’ora insolita e ci sorprende, oltre al silenzio, un profumo di fiori, l’ordine perfetto, la pulizia meticolosa, di chi è il merito? Certamente delle persone brave e generose della parrocchia, ma tanto merito va alla persona, uomo o donna, che ha l’incarico di sacrestano. A Piedicastello, per la chiesa di Sant’Apollinare, l’incaricato ufficiale è Beppino Valer, che per me è una sorta di prodigio vivente solo se pensiamo alla sua età, 96 anni, a come è lucido, a come si muove camminando , alla sua espressione intensa quando distribuisce la comunione (è anche ministro dell’eucarestia) in appoggio al celebrante. Non a caso Beppino è stimato e benvoluto da tutti gli abitanti del rione, anche da quelli che frequentano poco la chiesa, perché sa accompagnare la sua presenza quotidiana con un atteggiamento di grande amicizia e di grande buon senso.

Nella sua lunga esistenza è stato un ottimo e apprezzato commesso in un negozio del centro storico, e ha praticato in gioventù lo sport, nello specifico la corsa podistica, con buoni risultati. Benché colpito da due gravi e tristissimi lutti in famiglia, confortato da una fede cristallina, non ha mai abbandonato l’atteggiamento di riservatezza che lo contraddistingue, per non far pesare agli altri i suoi sentimenti. Lunghi anni ancora al “nostro” e un sentito “bravi” anche a tutti gli altri “eppino Valer” che non conosco.

Italo Leveghi – Trento

Nel bel romanzo “La miglior vitaFulvio Tomizza, lo scrittore di frontiera istriano-triestino amico di Giacomo Botteri, (grande e troppo poco conosciuto poeta di Strembo in val Rendena che ora vive a Mestre) pone al centro del suo racconto la figura di un sacrestano che, con la sua famiglia, regge il peso della chiesa di un piccolo paese di minoranze, diviso fra italiani e slavi durante le bufere del Novecento.

Passano i parroci, con le loro vocazioni e debolezze, crollano gli imperi (quello asburgico che sembrava immutabile …) subentrano i regimi, il fascismo con i manganelli, il comunismo titino, c’è chi costruisce i campanili e chi vuole abbatterli …Tutto cambia, anche il modo con cui ragazzi e ragazze stanno fra loro, ma un filo di continuità rimane nel paese, un’umanità pastorale e comunitaria assicurata dal sacrestano, dalla sua “quotidianità”, una dimensione che lo stesso “padre nostro” richiama.

Il sacrestano sa scandire e riempire anche le assenze. Suona le campane (quando gli è consentito) apre la chiesa vuota a chi vorrà fermarsi, prepara i paramenti (quando arriverà un prete a dire messa) tiene accesa la fiammella della devozione sperando che diventi fiamma di fede, mette insieme – nell’ascolto – i cocci delle vite attorno alla sua.

E’ il sacrestano il protagonista de “La miglior vita”, uscito (Rizzoli) nel 1977, ma per molti aspetti profetico. I popoli delle minoranze, come quelli slavo-triestino-dalmati, come quelli trentino-altotesino-sudtirolesi sono sempre un laboratorio della storia, la vivono nelle sue contraddizioni, la soffrano, a tratti anche la pacificano. Per questo il libro andrebbe riletto proprio in un’attualissima ottica di “minoranza”, anche per rivalutare la figura del sacrestano, troppo spesso negletta o ridotta a un ruolo marginale. E invece il sacrestano rappresenta l’umiltà della fede che si fa servizio, supplenza, presenza. Non si definisce anche il papa “Servus servorum Dei? Ne conosciamo ancora tanti di sacrestani, ma accanto a Beppino Valer almeno una figura femminile va ricordata, quella di Stella, anche lei molto avanti negli anni, piegata dalle fatiche, ma indomita nel voler essere presente nella chiesa di Mavignola, diligente quando passa a raccogliere le offerte, felice quando può suonarne le campane a distesa.

Si parla tanto in questi giorni di sacerdozio, maschile e femminile, celibato o “uxorato”, intervengono eminenze e papi emeriti, ma forse sarebbe il caso – nell’attesa – di soffermarsi sulle cose più semplici, sul fatto che nessuno fa controversie sui sacrestani, uomini o donne che siano, e che non ci sono sacrestani “emeriti”, perché i sacrestani non vengono messi in pensione, tanto che molti restano attivi oltre i 90 anni.

Sono vecchi? E allora? Non stiamo diventando un popolo di anziani? ? Perché non affidarsi a queste figure che tengono aperto uno spazio di silenzio nel confuso frastuono generale? Le chiese non sono un tempio. Sono la casa del Signore e dei suoi figli … delle famiglie, del paese, sono il rifugio, l’accoglienza. Un sacrestano che tenga la porta aperta e magari sosti qualche minuto in un banco per una preghiera, dà un senso di comunità anche alla solitudine, alla pietà individuale. E allora si tratta di avere fiducia nei sacrestani, di prepararli, di invitare magari donne e uomini buoni a diventarlo. Poi ci penserà il Signore a mandare operai nella sua vigna, ma intanto possiamo (dobbiamo) bastare noi a tenerla libera dagli sterpi.

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