Coronavirus, la malattia di Giacomo Radoani: “Che sorpresa al risveglio… ed ho pianto di gioia”

«Nella lettera di dimissioni ho trovato scritto che durante il periodo di sedazione sono stati registrati episodi di delirio…chissà quante stupidaggini avrò detto!» Ricorre alla sua gioviale ironia Giacomo Radoani, 70 anni, figura apprezzata in valle del Chiese (docente all’Università del Tempo Libero) e nota in città per la sua attività di libraio, nel ripercorrere ben 42 giorni in tre diversi ospedali. Dal senso di sgomento per la diagnosi e poi di rassegnazione serena («Nunc dimittis…» ha scritto a qualcuno con il cantico del saggio Simeone) prima del trasporto dall’ospedale di Tione a quello di Arco, il 13 marzo, fino al risveglio postsedazione totale il 31 marzo: un periodo lungo di cui non ricorda assolutamente nulla. «Ho saputo che domenica 15 marzo, essendo peggiorata la mia situazione, da Arco mi hanno trasferito a Trento nel reparto di rianimazione, dove mi hanno sottoposto ad anestesia totale, ossigeno e trattamento forte con antibiotici ed altre cure di cui non so dire».

Della fase di recupero in pneumologia al Santa Chiara ricorda molto bene due immagini: «La gara di alcuni infermieri nell’accorrere al capezzale di un paziente invocante aiuto e la carezza sulla mia testa di un’infermiera alla quale una sera avevo rivolto supplichevole una richiesta incredibile, dicendole: ”Pòrteme a mè cà , popa, te scongiuro, pòrteme a mè cà!” Mi ha risposto con infinita tenerezza: ”Adesso però è tardi, cerchi di dormire ora; ne riparleremo domani” e così mi ha tranquillizzato».

Radoani «vedeva» come se fossero lì accanto al letto figli, fratelli e nipoti piccoli con la loro pressante vicinanza: «Ogni mattina al risveglio mi si affacciavano il disegno del mio nipotino di nemmeno 5 anni con la scritta ”Sei grande, nonno, ce la farai..vedrai…” e il messaggio di un sacerdote amico: «Il Signore ti rialzerà».

Giacomo non ha smesso di frequentare in questi anni come volontario la comunità religiosa dei cappuccini a Rovereto: si è rifugiato nel conforto della preghiera: «Pregavo per me con l’inno de IV secolo Te Deum laudamus, con il Miserere per gli amici di cui ho avuto la tristissima notizia della scomparsa e infine con il Veni Creator Spiritus» per tutti coloro che operano ad alleviare queste sofferenze… Aggiunge, ancora scherzoso: «In tal guisa non mi sono mai annoiato, anche per lo sforzo mentale di recuperare alla memoria il testo esatto di questi inni. Se uno prega trova sempre qualcuno per il quale invocare la misericordia dell’Altissimo: basti pensare a tutti i bambini che soffrono nel mondo, ai carcerati, ai malati terminali…»

L’8 aprile è stato trasferito da Trento a Tione fino alle dimissioni del 23 aprile: «E’ inesprimibile la riconoscenza per gli operatori sanitari. Il Signore mi ha rialzato servendosi della loro opera generosa, assidua, piena di abnegazione e di coraggio. Oltre che dalla loro dedizione e professionalità sono stato salvato anche dalla forza della supplica di tutti coloro che mi vogliono bene». A proposito Radoani ci consegna l’immagine più pregnante, quella che risale al risveglio postsedazione: «Ho avuto nettissima la sensazione/visione di una folla di persone (tutti i miei familiari, tutto il paese di Condino, amici dei vari gruppi e associazioni a cui sono vicino, anche di Trento…) che, unita e compatta come una falange, pregava, invocava, reclamava in certo senso spingendo lontano sorella morte. E’ un’immagine difficile da descrivere ma che mi ha dato una forza incredibile: in quel momento ho pianto di gioia e di commozione: ho intuito che potevo farcela».

Cosa vuol dire ai parenti di chi non è ancora uscito: «Di non perdere mai la fiducia e la speranza, di non lasciarsi mai sopraffare dalla depressione e dalla disperazione, di dare dimostrazione di autentica solidarietà ai loro familiari sofferenti, trasferendo loro la gioia della vita e della risurrezione».

Cosa lascerà quest’esperienza? «Certamente un’attenzione e una comprensione maggiore per chi soffre; molto probabilmente un rinnovamento nel mio stile di vita; una riconoscenza, che però non so come tradurre in pratica, per tutti, ma proprio tutti coloro che mi hanno incoraggiato, sostenuto, curato e restituito alla vita, una riconoscenza viva, profonda, indicibile per tutti, per tutti».

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