Fiducia, vicinanza, solidarietà: tre parole per superare la tempesta

La solidarietà per restare umani, anche nella tempesta – foto Gianni Zotta

Siamo su una barca dentro la tempesta. Impauriti e smarriti, con lo stesso sogno, uscirne prima possibile, ma senza sapere quanto distante sia la riva, quanto sicuro sia l’approdo, quanto alte siano le onde. Ci guardiamo intorno e scopriamo che nei nostri occhi c’è un bisogno fortissimo di sapere che l’altro ha la tua stessa emozione ma anche il tuo stesso desiderio. Che l’altro può diventare un aiuto se si mette a remare, ma nella stessa direzione. Che l’altro ti può dare un sorriso e dirti che ce la farai, che ce la faremo, che dopo ogni notte c’è un’alba.

Non basta, certo, la speranza, da sola non basta. Occorre fiducia, un bene prezioso che abbiamo smarrito, nella diffidenza che ci ha travolto, nella competizione, nell’arrivismo, nella presunzione. Quanto è importante pensare che ogni persona che sta sulla barca è un tuo alleato e non un tuo nemico. Quanto è importante sapere che che ognuno di quanti sono imbarcati è disposto a dare quello che è nelle sue capacità, nelle sue forze, nel suo pensiero. A sostituire chi è stanco, a incoraggiare chi è stremato, a soccorrere chi si sta lasciando andare.

Occorre vicinanza, sentire il braccio che ti stringe per rassicurarti, la mano che ti accarezza, la parola che ti dà conforto, lo sguardo che ti fa capire che esisti, che vali, che conti, che non sei un numero. Quanta vicinanza è mancata in questi anni, fra noi e verso gli altri, anche verso quelli che su altre barche salivano, per fuggire, scappare, sognare un mondo diverso. Quanta vicinanza è stata negata, e di quanta ne abbiamo bisogno noi ora.

Claudio Bassetti è presidente del Cnca – Coordinamento nazionale comunità di accoglienza del Trentino – Alto Adige / Sudtirol – foto Panato

Occorre solidarietà. Parola bistrattata, disprezzata, stracciata, contusa, allontanata come malattia da estirpare da un progetto di società incattivita ed escludente, senza anima e senza pietas, con i primi sempre più primi e gli ultimi ad aumentare di numero e di disperazione.

Quanta solidarietà ci vuole su una barca perché arrivi fino in fondo. Per far sbarcare tutti, per tutelare chi non ce la fa più a remare, chi non può farlo perché malato, perché offeso, perché menomato, perché debole, perché senza difese. Ognuno di questi non è un peso, è un valore da difendere in quanto uomini, in quanto persone, in quanto portatori di diritti.

Non si butta nessuno dalla barca, mai; ma quanta solidarietà serve per fare questo? Da quanta ne siamo ancora abitati, quanta ne abbiamo smarrita in questi anni, quanta ne troviamo nel fondo della nostra anima? Abbiamo bisogno di tutta quella che c’è rimasta ed aggiungerne, perché remare è faticoso soprattutto se la corrente è contraria.

Ma non abbiamo scelta. Quelli che si tirano indietro, quelli che trovano i nemici da additare, quelli che gridano il primato degli uni sugli altri, quelli, assieme all’umanità allontanano anche la riva. Ma alla riva vogliamo arrivare; ci arriveremo bene e presto se tutti, insieme, facciamo quello che sappiamo e dobbiamo fare. E una volta sbarcati, non corriamo a disperderci. Ci sono le vittime da piangere assieme, c’è un mondo di persone da ringraziare, e li conosciamo, perché sulla barca si sono spesi e sacrificati, senza chiedere nulla, per una pulsione fondamentale che li anima.

C’è anche un mondo da ricostruire, uniti. Quello che abbiamo imparato a bordo non dobbiamo scordarlo, non dobbiamo dimenticarlo. Deve diventare pratica quotidiana. E la tempesta, le perdite, le fatiche allora saranno servite a farci più forti.

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