Quella piazza deserta è la piazza della verità

Rembrandt, Cristo nella tempesta sul mare di Galilea (part), 1633. Olio su tela – foto Wikipedia.org

Gli sguardi dei discepoli di Cristo, i loro gesti caotici e pieni d’ansia nel bel quadro di Rembrandt, che appare in molti commenti alla Parola del Papa in piazza San Pietro, ci consegnano l’angoscia dei nostri tempi, l’incrinatura delle nostre sicurezze, lo sfaldarsi del nostro “mostrare i muscoli”, alla natura e alle malattie.

Questo quadro, si dice rubato o trafugato o magari solitario e triste sulla parete del soggiorno di qualche ricco magnate, è nascosto ai nostri occhi, così com’è rimasta opaca, nella nostra anima, l’essenza del brano evangelico.

Questa Parola è naufragata anch’essa nelle nostre chiese ormai semivuote di giovani e abitate, spesso, solo da anziani e da poche famiglie. E’ l’immagine della paura dei discepoli e della solitudine di Dio, che vede i suoi apostoli timorosi e senza speranza.

Anche il Papa era solo, con il suo incedere lento, nella grande piazza deserta, accompagnato dalle sirene delle ambulanze, dallo scroscio della pioggia e dal tumulto dei nostri cuori, timorosi come quelli degli apostoli. Un uomo vestito di bianco al timone di una barca in preda allo sconquasso, ma con la speranza e la certezza di affidare tutto a colui che solo può placare le onde, se noi gli daremo una mano.

Noi siamo spesso marinai con l’acqua alla gola e in balia delle prime avvisaglie della tempesta. Ma questo tempo ci ha mostrato che un futuro esiste e che può essere affidato alle mani dei più giovani.

paolo rasera
Paolo Rasera, dirigente scolastico in pensione

Da uomo di scuola mi sono sempre stupito e rallegrato delle potenzialità, spesso inespresse o schiacciate, dei giovani, che richiedono, da noi adulti, genitori e insegnanti, spazio e attenzione, nonché fiducia, anche a fronte dei loro errori.

Lo chiedono anche le mani operose dei giovani volontari di questi tempi affannosi, lo chiedono i giovani ricercatori schiacciati dalla burocrazia, dalla precarietà e dal gioco crudele del “prima/i/nostri”, intesi come figli, amici e parenti, nella vita universitaria, lo chiede tutto il personale sanitario che lotta contro la furbizia di questo virus.

Lo chiede chi s’inventa, con una stampante 3D, nuovi erogatori di ossigeno, menti e stampanti che sarebbero, in altri tempi, coperte di polvere e dei soliti “le faremo sapere” o chi fa, da una maschera da sub, una maschera per dare vita.

Lo impongono i nuovi orizzonti della politica e dell’economia che non potrà essere più la stessa.
Un passaggio generazionale è essenziale, sotto lo sguardo più che vigile dei più grandi, intesi come quelli che possiedono competenza e altruismo, discernimento e fiducia, capacità e gratuità, finalmente maestri di un’umanità nuova.

Un cambio di rotta s’impone a questa barca che è schiacciata dalle onde, un cambio di rotta che deve fare piazza pulita di tutte le incrostazioni del passato, dell’egoismo, del capitalizzare ogni cosa, del profitto come unica meta, di quell’informazione, se non faziosa o falsa, spesso “cerchio-bottaia”, della stucchevole didattica on-line che ripete i meccanismi della lezione frontale, delle verifiche e delle interrogazioni come misura del sapere. Abbiamo bisogno di un tempo di trasparenza e di coraggio, di limpidità del cuore, di un mondo che non sia più vittima dei nostri egoismi e di una mediocrità di sistema.

E che un futuro c’è lo si capisce anche dalle note di una chitarra che suona su piazza Navona, sulle musiche di un vecchio musicista e di un tramonto mozzafiato, e dalle menti operose di tanti. Che c’è un futuro lo si percepisce dal sorriso senza fine di quell’uomo vestito di bianco, nella piazza deserta, che è, metaforicamente, la nostra piazza, la piazza della verità, una piazza senza bordi e pregiudizi, in cui vogliamo veder realizzati i sogni dei nostri giovani e dei nostri bambini, a cui spetta un futuro che sa di buono.

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