Guerra in Libia: l’imbarazzo italiano

Un recente incontro per la pace nel Mediterraneo (foto Agensir)

La grande crisi globale Covid-19 non ha attenuato i preesistenti conflitti nel mondo. Li ha semplicemente nascosti alla vista dei mass media. In alcuni casi li ha addirittura peggiorati, aggiungendo alle vittime della guerra quelle decedute a causa della pandemia in paesi privi di presidi ospedalieri e di sistemi di cura adeguati. E’ il caso, fra gli altri, della Libia ove la crisi sanitaria si è enormemente amplificata anche a causa della presenza in condizioni subumane di quasi 700mila immigrati e rifugiati. Fatto che non ha diminuito l’intensità del conflitto in atto fra il governo legittimo di Tripoli presieduto da Fayez al-Sarraj e quello di Bengasi del generale ribelle Khalifa Haftar.
Anzi, nel periodo del lockdown in mezzo mondo sono cambiate le sorti della guerra civile libica. Il governo di Tripoli, sotto attacco dall’aprile dello scorso anno da parte delle milizie fedeli ad Haftar, è riuscito a spezzare l’assedio alla capitale e a riconquistarsi quasi tutto il territorio della Tripolitania ceduto all’inizio dell’offensiva di Bengasi. Il tutto si è verificato nel quasi completo blackout informativo dell’Europa alle prese con Covid-19 e della stessa Italia, che pure “confina” con la problematica e per noi vitale Libia.
Eppure, come è noto, non si tratta solamente di un conflitto fra l’ovest, la Tripolitania, e l’est, la Cirenaica. Ormai la guerra si è completamente internazionalizzata e le sorti della Libia non dipendono da Tripoli o Bengasi, ma dalla determinazione degli attori esterni ad acquisire il controllo delle sue enormi riserve energetiche e della sua posizione strategica nel Mediterraneo meridionale. E’ in effetti stato l’intervento militare diretto della Turchia, con l’appoggio finanziario del Qatar, a permettere il rovesciamento delle sorti del conflitto a favore di Tripoli.
Gli sconfitti in questo caso sono la Russia, gli Emirati Arabi e l’Egitto che avevano scommesso sulla vittoria del generale Haftar, mandando rispettivamente uomini, soldi e armi in suo sostegno.
Dall’orizzonte libico è quindi scomparsa l’Onu, all’origine del governo internazionalmente riconosciuto di Serraj, ma che negli anni seguenti è rimasta paralizzata nei suoi tentativi di pacificazione a causa dei veti russi e dei tentennamenti dell’amministrazione americana indecisa se sostenere Serraj o Haftar. Ma a soffrire è anche la Nato, che attraverso l’operazione navale “Sea Guardian” aveva il compito di fare rispettare l’embargo sulla consegna di armi alle due parti in conflitto. Peccato che le armi dei russi per Haftar passassero via terra dall’Egitto, senza possibilità di controllo, mentre quelle per Serraj venivano portate via mare, ma, piccolo particolare, da un membro della stessa Nato: la Turchia.
In questo guazzabuglio di ruoli, qualche giorno fa una nave da guerra turca diretta a Tripoli ha “agganciato” con il proprio sistema missilistico una fregata francese, la Courbet, che pattugliava il mediterraneo e voleva verificare cosa ci faceva da quelle parti una nave da guerra turca non autorizzata all’interno della missione ufficiale Nato. L’imbarazzo a Bruxelles è stato altissimo e lo scambio di accuse fra alleati particolarmente vivace. I francesi che accusavano i turchi di interferenza nel conflitto libico dalla parte di Tripoli; i turchi che ironicamente definivano quelle francesi lacrime di coccodrillo essendo ben noto l’appoggio, anche militare, che il governo di Parigi aveva offerto ad Haftar contro il governo legittimo di Tripoli (votato all’Onu anche dalla Francia).
Le contraddizioni occidentali ed europee non si fermano davvero qui. Lo stesso governo italiano le vive con grande imbarazzo. Se all’inizio l’Italia si è schierata con forza e convinzione a sostegno del premier Sarraj, quale espressione di uno sforzo di pacificazione dell’Onu, in tempi più recenti l’atteggiamento è cambiato. Soprattutto quando il generale Haftar ha dato l’impressione di riuscire ad imporsi militarmente sul governo di Tripoli. Preoccupato per le possibili conseguenze negative sui nostri interessi petroliferi in Tripolitania e per l’uso dell’arma dell’immigrazione clandestina nelle mani di un generale ribelle, il nostro governo si è spostato verso Bengasi.
La conseguenza è stata quella di aprire le porte di Tripoli alla Turchia e di allontanare Serraj dai nostri interessi. Oggi la nostra posizione ambigua può essere usata in modo ricattatorio da entrambe le parti in conflitto e, soprattutto, dai loro sostenitori esterni, dalla Russia, alla Turchia all’Egitto. Per noi le cose quindi si complicano enormemente e non basterà la politica estera dell’Eni, come ai tempi di Mattei, a toglierci dai guai e dall’imbarazzo.

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