Negozi chiusi alla domenica: fatta la legge…

È richiesta anche una relazione più attenta con la natura. Foto © Gianni Zotta

Approvata giovedì scorso ed entrata in vigore già domenica 5 luglio, fa ancora discutere la nuova legge provinciale che “chiude” – o meglio “socchiude”, viste le numerose deroghe – i negozi alla domenica (a parte diciotto “date” all’anno). Ben venga questo dibattito, se conferma che la problematica è avvertita nei suoi riflessi decisivi sugli stili di vita dell’homo consumens, il vorace consumatore teorizzato dal sociologo Bauman.

Ed il perimetro culturale nei suoi limiti invalicabili deve essere scandagliato nell’affrontare questo tema, prima di tutto. Prima della discussione sullo strumento legislativo (sarebbe certamente più “sicura” una norma di attuazione con competenza regionale ottenuta tramite la Commissione dei Dodici); prima dei criteri d’inviduazione dei Comuni ad alta intensità turistica (sono più della metà, ma non comprendono Trento e Rovereto); prima della previsione troppo larga di deroghe, che rendono un colabrodo irrecuperabile quello che dovrebbe essere un contenitore flessibile.

Dunque, un primo paletto – ancora sottovalutato da molti – sta nel fatto che la domenica non è un giorno come gli altri, “chiuso” o “aperto” chi se ne importa. Aldilà di una motivazione biblica o liturgica, che ha peraltro molti fondamenti anche interreligiosi, la sosta domenicale segna un tempo riservato a quel riposo che la stessa Costituzione riconosce e che tutti i codici giuridici del lavoro tutelano. Parte da questo diritto – giustamente richiamato dai sindacati in queste giornate– la salvaguardia del riposo che non riguarda solo i singoli lavoratori: ne godono le loro famiglie, le attività libere o associate di svago o di volontariato, tutta la vita sociale. Dobbiamo ridirci che la domenica ci “rimane” – dentro tempi di lavoro, di famiglia, persino di divertimento sempre più frastagliati e dispersivi – come il tempo “sincronizzato”, in cui potersi ritrovare e riconoscere come comunità. Una pausa in contemporanea, da blindare a beneficio del benessere singolo e collettivo.

Vi si contrappone come paletto opposto il diritto alla libera concorrenza (“se i negozi sono chiusi da noi, i clienti fuggono nelle regioni vicine”), ma qui si entra già in una logica mercantile che dovrebbe essere subordinata, non prioritaria.

Un altro paletto – talvolta strattonato – sta nel concetto di servizio essenziale, da garantire anche alla domenica: forze dell’ordine, sanitari o cronisti, per fare degli esempi, ma anche agricoltori e allevatori, nel caso di mansioni che non possono essere omesse nemmeno di domenica. Più complessa – soprattutto nelle zone a monocultura turistica – la valutazione per i dipendenti impiegati nei servizi legati appunto alla recettività turistica (dai trasporti alla ristorazione), il cui valore di necessità può essere ricondotto proprio a favorire i momenti di aggregazione comunitaria. Va detto peraltro che un numero circoscritto di domeniche aperte consentirebbe di limitarsi alle sole stagioni turistiche. Infine dovremo indicare anche il paletto della convinzione personale rispetto al singolo comportamento o allo stile di vita (“quanto sto “acquistando” rienta nel mio superfluo o mi è necessario? Va a ledere i diritti di altri?”) che è la dimensione valoriale sulla quale ogni normativa deve poi attecchire. Il periodo Covid ci ha fatto forzatamente “riscoprire” le domeniche in casa, quest’estate di sperimentazione della nuova legge potrebbe spingerci a ridisegnare anche una domenica di tempo liberato, non consumato.

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