Santa Sofia, l’ultima mossa di Erdogan

Santa Sofia

Un grande schiaffo alla Cristianità. La trasformazione della Basilica di Santa Sofia, inaugurata nel 537 dall’imperatore bizantino Giustiniano, in una Moschea dal presidente turco Tayyip Erdogan a metà luglio non poteva che essere letta in questo modo.

Vero è che S. Sofia aveva subìto un primo passaggio a moschea nel 1453 alla conquista di Costantinopoli da parte del Sultano Mehmet II° e tale era rimasta fino al 1934 poco dopo la fine dell’Impero Ottomano. Ma il padre della Repubblica di Turchia, Kemal Ataturk, aveva voluto sanare questa doppia, conflittale natura trasformandola in un museo, oggi riconosciuto come patrimonio dell’umanità dall’Unesco e con una media di 3.5 milioni di visitatori all’anno.

Con questa ultima mossa, sembra davvero che Erdogan abbia voluto riportare indietro la storia di mezzo secolo, riproponendo il conflitto fra islamismo e cristianesimo in tutta la sua assurdità. In realtà non è solo l’oltraggio alla Cristianità a preoccupare. Innanzitutto cambia la natura del potere in Turchia. Con quest’ultima mossa Erdogan dichiara la fine del grande esperimento laico e secolare voluto da Ataturk.

La commistione fra religione e politica ritorna ad essere la regola come ai tempi dell’impero ottomano e in qualche modo avvicina la sunnita Turchia all’Iran sciita, ove sono addirittura i clerici, gli ayatollah, a governare direttamente il paese. Saltano di conseguenza le libertà individuali e non è un caso se subito dopo la trasformazione di S. Sofia in moschea il Parlamento turco ha approvato una legge che limita drasticamente i social media locali, imponendo controlli e pene severissime. E’ questa una tendenza che già da alcuni anni si sta manifestano in quel Paese, tanto che il più recente indice sulla libertà di stampa elaborato da Press Freedom colloca la Turchia al 154esimo posto su 180 paesi presi in considerazione. D’altronde questo atteggiamento illiberale e nazionalista viene anche spiegato con le difficoltà che Erdogan sta incontrando nella sua frenetica rincorsa ad un sempre maggiore potere.

La situazione economica, infatti, gli è sfuggita di mano e dopo anni di crescita i principali indici danno segni di dura involuzione: una inflazione a due cifre, una disoccupazione oltre il 13% ed ora le conseguenze della pandemia che rendono la situazione ancora più preoccupante. Sul piano politico interno, poi, l’opposizione ad Erdogan ha ripreso vigore, sottraendo al partito del leader due città chiave come Istanbul e Ankara. Quale reazione migliore, quindi, di quella di suscitare nella popolazione un sussulto di nazionalismo e di islamismo per riprendere in mano il calante sostegno politico? Il tutto poi accompagnato da una politica estera estremamente aggressiva nella quale riecheggiano i sogni e la nostalgia del grande impero ottomano. Si spiegano anche così le sfide di Ankara nel Medio Oriente. Dalla guerra contro i curdi siriani, allo scopo di ampliare i confini a sud del territorio turco nella vicina Siria, alla penetrazione in Africa, dalla Somalia alla Libia con interventi armati. Ma anche le sfide contro l’Europa con ripetute minacce alla Grecia e addirittura alla Francia e all’Italia sul controllo dei giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo orientale. Saltano gli schemi del passato e si mettono in forse sia i rapporti con l’Unione europea che le alleanze con i partner della Nato e in particolare gli Stati Uniti.

Capita allora di assistere ad un Erdogan che da membro della Nato acquista dalla Russia sistemi d’arma antiaerei o vìola il pattugliamento e il controllo della Nato (voluto dall’Onu) davanti alla Libia per rifornire di armi i propri mercenari che combattono a favore del governo di Tripoli. Insomma, un paese ormai in lotta con i vecchi alleati e alla ricerca di un proprio ruolo di potenza regionale, senza alcun riguardo per le leggi internazionali o per gli accordi e i trattati sottoscritti nel passato. Un grande problema per l’UE che per anni ha portato avanti, spesso di malavoglia, una politica di allargamento verso la Turchia. Ipotesi ormai tramontata da tempo, ma mai sostituita da una diversa posizione, più chiara di quella passata. Le ipotesi sono due: o un confronto duro contro ogni sfida lanciata da Erdogan o una intelligente politica di partenariato. Chiaro come la prima, da sola, sia difficilmente sostenibile per l’Europa. La seconda, invece, richiede una forte unità fra i membri dell’Unione che devono giocare con la necessaria durezza la carta dell’enorme dipendenza economica di Ankara dall’Ue per tracciare delle linee rosse invalicabili; ma allo stesso tempo aprire una permanente e schietta consultazione con la Turchia su tutti i temi di contrasto e sugli interessi comuni. Una sorta di partenariato speciale con l’Ue, al fine di evitare il definitivo scivolamento di quel paese verso uno stato sempre più autoritario, intollerante e incontrollabile

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