“La mia ‘Merica”, una storia di emigrazione dei primi del ‘900

Emigrati italiani arrivano ad Ellis Island.

Ricorda ancora molto bene quella volta che arrivò ad Ellis Island, isoletta nei pressi di New York, dove approdavano tutti i migranti provenienti dall’Europa. Era l’anno 1932.

Ricorda bene la signora Wilma, 93 anni compiuti a fine agosto, la mente lucidissima, un archivio di memorie.

Ricorda quel senso di smarrimento e di paura che la pervase, lei che aveva 6 anni e stava ritornando con i suoi genitori e la sorella che aveva 8 anni, negli Stati Uniti, dove era nata, dopo qualche mese trascorso nel bellunese, nel trovarsi di fronte la Statua della Libertà, altissima, maestosa, inaccessibile per lei bambina e al tempo stesso vicina quasi da toccare con le mani.

La signora Wilma oggi

Wilma G. è nata a Chicago nel 1926. Feltrina, di una piccola frazione posta alle falde del Monte Grappa, da più di trent’anni vive a Trento. Al suo paese ritorna ogni estate.

Suo padre era andato negli Stati Uniti giovanissimo per guadagnarsi da vivere e in realtà aveva fatto anche una certa fortuna che poi andò in fumo con la crisi del ’29. Sua madre faceva da mangiare per gli operai che abitavano in baracche ed erano tutti emigrati italiani ed europei in genere. Loro, come famiglia, erano stati in qualche modo fortunati, avevano ottenuto di abitare in una casetta a schiera dignitosa, due stanze, una cucina, il bagno (che per quei tempi era un lusso averlo in casa, nei paesi trentini e veneti era costituito da un casotto posto fuori, non distante dall’abitazione, l’acqua per la cucina bisognava andare a prenderla alla fontana del paese, con i secchi e il bigoncio).

La traversata dell’oceano era stata lunga e avventurosa, molti soffrivano del mal di mare, se non di guai maggiori, il cibo era scarso e carente di “sostanza”. Il viaggio durava una ventina di giorni, le navi risultavano affollate oltre ogni misura, in genere si trattava di vecchie “carrette” del mare utilizzate da armatori che ne approfittavano per riempirle fin che potevano per guadagnare di più.

Sono stati più di 12 milioni gli uomini, donne e bambini, europei, tantissimi italiani che sono approdati a Ellis Island, la porta d’accesso al “nuovo mondo”. I grattacieli di Manhattan si ergevano all’orizzonte e facevano intuire quella che sarebbe stata la  loro terra d’approdo, la “terra promessa”. Ma prima di sbarcare bisognava sottoporsi a controlli e visite mediche. La visita medica evidenziava i molti casi le “malattie” endemiche dei nostri contadini: tracoma, gozzo, pellagra.

Oggi l’edificio principale di Ellis Island -in mattoni rossi con quattro torrette all’esterno- è stato restaurato e aperto al pubblico nel 1990 come Museo, l’unico Museo statunitense che risulta un emblema dell’emigrazione della storia recente negli Stati Uniti. Ricordiamo che circa la metà degli odierni abitanti degli Usa ha almeno un familiare che è passato da quegli stanzoni. Il Museo viene visitato ogni anno da oltre 4 milioni di persone.

La nipote della signora Wilma, Marta, trovandosi recentemente a New York per motivi di lavoro, è andata a visitare il posto dove sua nonna era approdata tanti anni prima e si è fatta rilasciare copia fotostatica della registrazione fatta all’arrivo da parte delle autorità americane.

Le sale adibite a spazi espositivi mostrano le piccole e povere cose che gli emigrati avevano portato con sé: valigie di ogni tipo, le più rudimentali; sacchi; utensili come piatti, forchette e cucchiai, abiti di quell’epoca. Alcuni stanzoni sono rimasti intatti da allora, come ad esempio i dormitori nei quali venivano ricoverati i malati o tutti quelli che venivano sottoposti al periodo di quarantena. La “Registry Room” è la sala dove la gente attendeva con ansia e trepidazione di essere chiamata dagli ispettori e poter così ottenere il permesso di sbarco.

Il restauro ha ricreato un ambiente pressoché uguale a quello che era cento anni fa. Agli arrivati veniva richiesta la provenienza, i dati anagrafici, la destinazione, la disponibilità di denaro, e anche eventuali simpatie politiche (erano quegli gli anni in cui furono giustiziati ingiustamente due anarchici italiani, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti). A Wilma era stata risparmiata questa logorante e lunga trafila, essendo cittadina americana.

Quello che ricorda è che all’arrivo il padre non c’era, si era trattato probabilmente di un equivoco nelle comunicazioni e lui si trovava nell’entroterra per lavoro, la madre e le due bambine dovettero aspettare quattro o cinque giorni ma furono trattate benissimo, ricorda.

Poi, qualche tempo dopo, il definitivo ritorno in Italia, al paese nel feltrino dove le donne – ricorda oggi Wilma – vestivano tutte di nero con il fazzoletto nero in testa mentre “noi e nostra madre portavamo dei vestiti chiari e alle volte senza maniche e le gonne solo un po’ più corte”. Destando meraviglia e stupore, in taluni casi disappunto.

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