Quel vuoto al segno della pace

La stretta di mano in segno di Pace. Foto Agensir

Il bacio, un saluto che esprime grande intimità e fiducia reciproca, compare più volte nelle formule di chiusura delle lettere di Paolo (“Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo”: Romani 16,16; 1 Corinzi 16,20; 2 Corinzi 13,12; 1 Tessalonicesi 5,26) e nella prima lettera di Pietro (5,14: “Salutatevi l’un l’altro con un bacio d’amore fraterno”). È presente nei testi della prima letteratura cristiana, con un ruolo specifico all’interno della liturgia stessa. Lo testimonia Giustino, nel II secolo: “Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio”; e a tale gesto segue la preghiera eucaristica.

Il bacio poteva anche essere equivocato, per cui ne nascevano chiacchiere e calunnie: il testo noto come Tradizione Apostolica, precisa quindi: “Gli uomini tra loro, le donne tra loro. Gli uomini non debbono dare il bacio alle donne”. Nel quarto secolo Cirillo, vescovo di Gerusalemme, ne parla in questi termini: “Non pensare a un bacio quale è quello che di solito amici si scambiano incontrandosi in piazza: nulla del genere. Il nostro è un gesto che esprime la volontà di conciliare le anime con il proposito di dimenticare le vicendevoli offese: un segno di unione dei cuori e della estinzione di ogni inimicizia”. Cirillo cita quindi il passo del Vangelo di Matteo (“se stai facendo la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te…”) e conclude: “Il nostro gesto equivale quindi a una riconciliazione e per questo si dice bacio santo”.

Papa Innocenzo I, nel 416, attesta che nella Chiesa romana tale bacio era dunque considerato la premessa del momento della comunione. Nel corso del medioevo, il bacio di pace si trasformò in un abbraccio tra le persone o in un bacio rivolto a una tavola che riportava un’immagine sacra, che veniva passata dall’uno all’altro; ed era comunque riservato solo al clero, per cui il signum pacis compariva solo nella Messa solenne (quella che prevedeva più ministri).

Solo la riforma liturgica del XX secolo ha reintrodotto un segno che, prima della comunione, esprime la riconciliazione reciproca: all’invito del celebrante “scambiatevi un segno di pace” segue generalmente la stretta di mano, che è considerata – nel nostro contesto culturale – il gesto più adatto (è il modo con cui mostriamo reciprocamente di essere disarmati e dunque animati da buone intenzioni).

Nel momento di preoccupazione seguito alla diffusione del Covid-19, si è pensato che fosse il caso di cancellare quella stretta di mano, in quanto considerata un possibile vettore del contagio. E così ora la liturgia scorre via, piattamente (“La pace sia con voi – E con il tuo spirito – Agnello di Dio che togli i peccati del mondo…”), senza quel gesto capace di esprimere la riconciliazione reciproca che Gesù ci ha chiesto.

Perché non si è cercato di sostituire la stretta di mano con qualcos’altro, qualcosa che esprimesse la stessa intenzione, anche in assenza di un contatto? Perché il celebrante non ci invita almeno a guardarci negli occhi? Perché non ci facciamo un cenno con la mano? Perché non un inchino?

Voglio sperare che a media scadenza potremo tornare a stringerci la mano, ma nel frattempo sarebbe bello che chi presiede l’assemblea liturgica ci chiedesse comunque di scambiarci un qualche segno di comunione e riconciliazione (come qualcuno già fa). È ben vero che si tratta di una parte del rito che il messale indica come facoltativa (“Se si ritiene opportuno”, dice la rubrica): ma non vedo perché non potremmo fare qualcosa per evitare che la sensazione di essere “utenti” distanti e distinti, e non un’assemblea celebrante, diventi sempre più forte.

Può essere che toccarsi con il gomito sia un gesto poco adatto a un momento solenne, ma sarebbe certamente meglio del vuoto che si è creato in quel momento della celebrazione eucaristica.

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