Accanto agli indios nel nome di padre Silvio Broseghini

Padre Silvio Broseghini aveva scelto di vivere tra gli Shuar, una comunità indigena della foresta

Padre Silvio Broseghini è morto nel 2006. Era un salesiano che ha trascorso praticamente tutta la sua vita in Ecuador, tra gli indios. Vi era andato che aveva 18 anni e da allora l’ha portato via di là solo una morte prematura. La sua opera continua con l’Associazione che da Baselga di Pinè coinvolge una decina di persone in modo piuttosto stabile e continuativo e altre di volta in volta in occasione di eventi e circostanze fattive. Andrea Facchinelli è presidente dell’Associazione Silvio Broseghini e fa il punto della situazione, ricordando che sono giusto vent’anni dalla sua prima visita in Ecuador.

Padre Silvio aveva scelto di vivere tra gli Shuar, una comunità indigena della foresta con una lunga storia e una lingua ancestrale. “Si pensa provengano dall’Indonesia, la loro lingua ha infatti analogie con i popoli indonesiani”. Un giro impressionante, una peregrinazione migratoria lunghissima. Gente coi loro miti e simboli fra cui il missionario si è inserito con molta discrezione, vivendo con loro e imparando molto, non avendo nulla da insegnare se non il fatto di stare insieme e condividere la vita della foresta. Un apprendistato lento e paziente. “Questa è gente che vive della foresta – osserva oggi Andrea -, vive se vive dentro la propria terra. Se mandati fuori muoiono, scompaiono”. E la foresta non è un ambiente idilliaco. “Un ambiente terrificante: non è detto che quando vai a fare un bagno nel fiume poi ne esci illeso, può succedere di tutto”.

L’Associazione si adopera da tempo in sinergia con l’analoga associazione locale che si chiama “Fundacion Chankuap: recursos para el futuro” e questo per dire: noi vi supportiamo, ma dovete essere voi a portare avanti quello che vi preme e vi serve. Andrea non si nasconde che le difficoltà sono enormi. E l’esito non è scontato.

“Importante è cercare di preservare quelle realtà, ma se sono destinate a scomparire a cosa serve?”, si chiede con un senso di mestizia e di realismo. Gli interessi esterni, il “progresso” che li caccia, le forze esterne che sono molto più forti di loro, soverchianti. La risposta a questo punto non può che essere questa: “Decisivo è il cammino che si fa insieme a loro”.

L’avvicinamento delle persone, come aveva fatto nella sua vita padre Silvio: l’avvicinamento, l’amore e il rispetto. Aiutarli a migliorare la loro vita nella reciprocità perché si ha molto da imparare da loro. Il percorso è quello che conta, l’obiettivo è secondario. Sono contesti, quelli della foresta in Ecuador, che ricordano molto quelli rappresentati nel famoso film “Mission”, le riduzioni gesuitiche in Paraguay che alla fine del 1700 tentavano di sottrarre gli indios alla schiavitù e alla dominazione coloniale spagnola e portoghese. Anche nel contesto dell’Ecuador attuale tutto si gioca nel segno dell’incertezza e della provvisorietà. “Per entrare in foresta servono un buon machete e uno Shuar”.

“Osserviamo il ruolo del commercio equo e solidale dentro la foresta – continua Andrea -, si forniscono le sementi a famiglie a gruppi di 3, 4 persone, il raccolto è incerto. Le distanze sono enormi, entra l’aeroplanino e preleva il raccolto. Si tratta di noccioline americane già secche – se no pesano troppo – e allora servono essiccatoi, piccole serre che si costruiscono”. Anche per le altre produzioni si tratta di oli essenziali che hanno un rendimento scarsissimo, quasi nullo. “C’è tutta una storia dietro a poche gocce di olio essenziale – continua Andrea -, un lavoro enorme. Noi non ce ne rendiamo conto quando compriamo una saponetta o un profumo, ma alle spalle di quei piccoli prodotti c’è tanto lavoro, ore e ore di raccolta dei fiori e delle essenze”.

Sono 5 mila le famiglie che campano grazie a queste attività e a questa collaborazione. Shuar e Ashuar, etnie spesso rivali perché andare d’accordo non è per niente facile e allora se nasce un dissidio un gruppo si sposta un po’ più in là, spazio ce n’è.

Ma quello che fa pensare è che dietro quelle due gocce c’è tutto un mondo. Persone, affetti, legami, fatiche. Equilibri instabili. Perché basta che si affacci una multinazionale e tutto viene rovinato. Adesso poi col Covid… “A Macas, mascherine dappertutto. Tutti fermi, e non è che là piovano sussidi e aiuti per tutti. Lo Stato praticamente non c’è. Abbiamo attivato un fondo, nel nostro piccolo cerchiamo di essere di supporto per quel che è possibile”. Anche l’Ecuador politico è mutato, è oggi meno attento ai bisogni della gente. Rafael Correa, che pure era stato un buon presidente, adesso è riparato in Belgio; il suo vice ha cambiato casacca e sta praticamente distruggendo quel che di buono era stato fatto per le periferie, la sanità, la scuola. Va a capirlo. Corsi e ricorsi storici.

Una regressione che impressiona. E le comunità indigene ne risentono pesantemente, si ritrovano sole, abbandonate. Uno scenario umano e ambientale difficile. “Pensare – conclude Andrea – che Correa quand’era ragazzo correva a casa di Mauro e Maria Bleggi (volontari trentini da tanti anni ormai in Ecuador, ndr) a dare una mano a quelli del Mato Grosso…”.

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