Emporio di comunità, a Trento si muovono i primi passi

Uno dei primi incontri del gruppo, al lavoro da circa un anno

La prima Food Coop nasce nel quartiere newyorkese di Park Slope, a Brooklyn. Siamo nel 1973, e un gruppo di hippie decide di fondare una cooperativa che segua un modello di consumo diverso rispetto a quello dominante. Nelle Food Coop, che ben presto si sono diffuse in tutti gli Stati Uniti e sono arrivate anche oltreoceano, in Francia e in Belgio, i soci della cooperativa sono anche i suoi gestori, perché le dedicano tre ore di lavoro volontario al mese. Lo slogan, che è anche la mission delle Food Coop, è “Good food at low prices for working members through cooperation”, che in inglese significa “Buon cibo a basso costo per i membri lavoratori attraverso cooperazione”.

A partire dal 2018, le Food Coop si sono diffuse anche in Italia sotto il nome di empori di comunità. L’apripista è stata Camilla a Bologna (vedi l’articolo sotto, ndr), ma questi presidi di economia solidale si sono diffusi anche a Cagliari con Mesa Noa, a Parma con Oltrefood Coop e a Ravenna con Stadera.

Anche a Trento c’è un gruppo di undici persone attive a vario titolo nell’associazionismo e nei gruppi di acquisto solidale che sta sondando il terreno per fondare un emporio di comunità. “Stiamo iniziando a far conoscere il progetto”, spiega una di loro, Claudia Trotter. “Nei prossimi mesi puntiamo a raggiungere almeno una quarantina di persone, in modo tale da poter fondare la cooperativa”.

Oltre all’attività del negozio, gli empori di comunità prevedono anche iniziative culturali e formative sui temi dell’economia solidale e implicano un coinvolgimento attivo della comunità. “Uno degli aspetti più interessanti è che i soci devono essere partecipi alla vita della cooperativa”, specifica Trotter. “Infatti, lo spazio è autogestito. È una novità, perché non c’è nessun’altra realtà trentina che richieda una partecipazione così attiva dei soci. Ci siamo però confrontati con altri empori di comunità e abbiamo concluso che dovranno comunque esserci un paio di dipendenti stipendiati”.

Non appena avrà raccolto le prime adesioni, il futuro emporio di comunità di Trento si dividerà in piccoli gruppi che approfondiranno i diversi aspetti della gestione di una Food Coop. I prezzi dovrebbero essere più bassi rispetto a quelli dei classici negozi biologici, per via dei costi di gestione più bassi dovuti al lavoro volontario dei soci. I prodotti saranno selezionati all’interno del mondo del biologico, non solamente attraverso l’autocertificazione, ma anche tramite il rapporto diretto con il produttore, riprendendo la logica dei gruppi di acquisto solidale. “Sui freschi dovremo necessariamente andare fuori regione”, dice Trotter. “Per altri prodotti, come ad esempio la cosmesi, compreremo in Trentino. La grande scommessa – conclude – è quella di aprire uno spazio che possa offrire tutti i generi di uso quotidiano, in modo tale che il socio non debba comprare in altri negozi. Mi piacerebbe anche che ci fosse uno spazio per l’abbigliamento”.

L’inaugurazione di Camilla a Bologna

In Italia tutto è partito da Camilla a Bologna

“Mi chiamo Camilla. Non cammino ancora, ma so già cosa farò da grande: sarò una cooperativa e costruirò un emporio di comunità”. Il 21 giugno del 2018 i membri del gruppo di acquisto solidale Alchemilla di Bologna decidono di dar vita a un modello cooperativo “più forte e coinvolgente”, come lo definisce il suo fondatore e vicepresidente Giovanni Notarangelo, e lo presentano così sulla testata web Comune. Il termine “emporio di comunità” è stato forgiato dal gruppo bolognese: negli Stati Uniti si parla di Food Coop, mentre in Francia e in Belgio di supermarchés coopératifs.

“Si sono aggiunte tante realtà produttive in più rispetto a quelle presenti nel gruppo di acquisto solidale”, racconta Notarangelo, appassionato di economia solidale sin dall’inizio degli anni Duemila, quando la ricerca di un sistema economico alternativo a quello dominante si presentava in modo forse ancora più forte rispetto a oggi. “Dal modello statunitense – aggiunge il vicepresidente di Camilla – abbiamo mutuato il turno di due ore e quarantacinque minuti che ciascun socio fa ogni mese in cooperativa”.

I soci dedicano quindi un po’ del loro tempo libero alla vita dell’emporio, in modo completamente gratuito: così facendo i costi di gestione diminuiscono, e di conseguenza anche il prezzo dei prodotti cala. Ci sono però due persone stipendiate che lavorano a Camilla, garantendo continuità al negozio, aperto dal martedì al sabato. “Coinvolgiamo i soci anche in altre occasioni – precisa Notarangelo – facendoli partecipare a gruppi di lavoro che si occupano di iniziative culturali, di selezionare i produttori e di gestire economicamente e finanziariamente la cooperativa”.

Ad oggi Camilla conta 565 soci, che hanno versato una quota di capitale sociale di 125 euro ciascuno. “Inizialmente, abbiamo cercato di far conoscere il progetto alla città”, ricorda Notarangelo. “In quella fase abbiamo raccolto la maggior parte delle adesioni”. Ma chi sono i soci dell’emporio di comunità? Come racconta il vicepresidente di Camilla, c’è uno zoccolo duro di persone molto consapevoli e “scolarizzate” sui temi dell’economia solidale. Ma ci sono anche alcuni che si sono avvicinati a questo mondo grazie all’emporio di comunità, che magari avevano già sentito parlare di economia solidale ma che non avevano mai “messo le mani in pasta”. “L’impressione – conclude Notarangelo – è che queste persone siano in fase di osservazione: continuano a fare la spesa nei supermercati tradizionali, ma nel frattempo vengono nel nostro emporio e piano piano si avvicinano a questo mondo”.

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