L’addio a Maradona, tifoseria o idolatria?

La popolarità del calciatore argentino dipinta sulle case popolari di Napoli – foto ANSA/SIR.

Ha colpito davvero lo spazio che la morte di Diego Maradona, il calciatore argentino che per una breve, ma importante stagione ha militato nel Napoli (e forse, più ancora, “a Napoli”) ha avuto in Italia, e non solo. Al di là dei ricorrenti eccessi francesi, che sembrano aver smarrito ogni “ésprit de finesse” ed hanno addirittura intitolato “Dieu est mort”, “Dio è morto”), decine e decine di pagine hanno salutato il calciatore prematuramente (60 anni) scomparso, elencando commenti non solo sulle sue partite, ma sulla sua vita, geniale e non esemplare.

Ne sono sorti confronti e divergenze che ancora si prolungano, perché il discorso non è se essere “geni” nel pallone giustifichi cadute nella vita privata, posto che ogni uomo fa errori e ha diritto a un riscatto, così come la morte cancella ogni colpa. Né si pone la volontà di fare moralismo su eventuali reati (tasse non tutte corrisposte?) a fronte di possibili peccati (disinvoltura con sostanze e un certo disordine esistenziale). Il problema è capire perché in una società sempre pronta a scagliare  la prima pietra le trasgressioni di Maradona vengano non solo perdonate, ma osannate, quando quelle dei comuni  mortali sono condannate ed esecrate.

Perché? Azzardiamo due ipotesi. La prima è che Maradona venga soprattutto ammirato perché, ancora una volta, ha fatto la cosa giusta al momento giusto. Sta qui, forse, la vera ragione (non è solo calcio!) del suo carisma. Maradona ha riscattato l’onore dell’Argentina ai mondiali 1986 contro l’Inghilterra dopo la sciagurata e perdente invasione delle Malvine-Falkland da parte del regime di Buenos Aires. Ha poi ridato fiducia a una città come Napoli, dalle vaste potenzialità di capitale mediterranea, ma incapace di credere in se stessa, quando vi è andato a giocare e a vivere. Ed ora è morto nel corso di una pandemia da virus che tiene chiusi in casa milioni di cittadini, per molti dei quali la sua vita appare come la manifestazione di una libertà assoluta ora tanto rimpianta e ricercata.

Da queste “tensioni” nascono i miti.

Maradona, infatti, ha cercato la sua libertà più trasgredendo che costruendo, in una scorciatoia di vita, che è peraltro ciò di cui tanti vanno in cerca. Le scorciatoie precipitano poi spesso nei burroni, ma danno l’illusone di volare. E sono in molti anche oggi, ad indossare la tuta alare credendo di poter imitare il volo di un’audace falco.

La seconda ragione riguarda problemi più profondi, tanto che la “santificazione” post-mortem del campione dovrebbe porre seri interrogativi a preti e laici, scienziati e politici. Dimostra, infatti, che una società secolarizzata, che ha rimosso ogni visione di sacralità, può non volere più un Dio, ma va alla ricerca di idoli per sostituirlo. E chi poi banalizza la Chiesa e reputa formali le sue liturgie, finisce per trasformare in riti le partite di calcio e li officia in quei templi che sono gli stadi. Fa ben riflettere questa ricerca di una dimensione sovrannaturale che,
attraverso l’immagine di un uomo, si prolunga anche dopo la morte, questa proiezione di tempo che non si può esorcizzare senza che si trasformi in una “superstizione di ritorno”, nella ricerca di nuove icone da glorificare al posto di un creatore da adorare. Chissà.

Ma forse lassù Diego Maradona riempirà a modo suo questa dimensione eterna, scordando gli stadi sulla terra e dribblando gli angeli, in un cielo di misericordia. Se poi riuscirà anche lassù
a fare gol, magari con l’aiuto della “Mano de Dios”, è tutto da vedere.

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