I parrocchiani di Betlemme ci indicano le priorità

Il cuore della Basilica della Natività a Betlemme

È certamente un Natale strano quello che stiamo per celebrare qui in Terra Santa. Per la prima volta dopo tanti anni la città di Betlemme, nei giorni in cui tutto il mondo guarda a lei, è vuota. Se, nel racconto del primo Natale, Betlemme era piena di gente venuta a farsi registrare in occasione del censimento e se in questi ultimi anni già all’inizio dell’Avvento i pellegrini riempivano la Città, oggi invece gli alberghi sono chiusi perché vuoti, a causa della pandemia che ha chiuso i cieli e impedisce ai pellegrini di viaggiare. Per la prima volta dopo tanti anni abbiamo vissuto una Pasqua senza pellegrini a Gerusalemme e vivremo un Natale senza pellegrini a Betlemme. Grazie a Dio non è però vuota la Grotta della Natività, perché la comunità cristiana locale, nonostante le terribili difficoltà economiche che sta attraversando, continua a vivere nella città in cui Gesù è nato e continua anche a celebrare con gioia e con speranza la nascita del Bambino venuto a salvarci. In un recente incontro con parrocchiani di Betlemme mi sono state presentate le maggiori difficoltà del momento, legate alla crisi economica causata dalla pandemia.

Da 10 mesi la maggior parte dei nostri cristiani è senza lavoro in un territorio nel quale non esistono ammortizzatori sociali né welfare: misure quali la cassa integrazione e un’assistenza sanitaria per tutti sono un sogno per gli abitanti di Betlemme e di tutta la Palestina. Il desiderio non è quello di poter fare il cenone, tagliare il panettone e stappare lo spumante, ma quello di poter pagare le medicine ai propri ammalati, di riuscire a mettere qualcosa da mangiare sulla tavola per la propria famiglia e di riuscire a mandare a scuola i propri figli.

I cristiani di Betlemme, proprio in questa situazione, quando li ho incontrati per organizzare in sicurezza le celebrazioni del Natale, sono stati molto espliciti nel ribadire le loro priorità: “Chiedeteci di rinunciare a tutto ma non chiedeteci di rinunciare alla possibilità di celebrare la Messa di Natale e la nascita di Gesù”. È in questo contesto, che tutti ci accomuna, che ci troviamo a celebrare il Natale 2020.

D’altro canto, il messaggio portato dagli angeli ai pastori è un messaggio di gioia e di salvezza in un contesto di povertà, di fatica e di oppressione: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,10-12).

Quando tutto va bene noi dimentichiamo che abbiamo bisogno di salvezza, che la vita non è qualcosa di cui possiamo disporre a nostro piacimento, perché non siamo in grado di disporre neanche della nostra salute fisica. Forse in un contesto del genere comprendiamo meglio cosa significa, a Natale, accogliere il nostro Salvatore e accoglierlo in un bambino.

Tutta l’umanità è alla ricerca di quel Bambino che cambia il destino di ognuno di noi e del mondo intero. E al tempo stesso tutta l’umanità, accogliendo questo bambino, è invitata a diventare un’unica famiglia in cui siamo tutti fratelli e sorelle, figli dell’unico Padre, che ci ha mandato il Suo figlio, e di quel Figlio ci ha donato lo Spirito.

Riscoprirsi tutti fratelli e sorelle significa oggi riscoprire anche il valore della solidarietà con chi si trova nella stessa situazione del Bambino Gesù al momento della sua nascita: bisognoso di essere accolto, senza una casa, privo dei beni di prima necessità, perseguitato dal potente di turno, costretto a fuggire dal proprio Paese.

Ma se oggi non saremo capaci di accogliere il Bambino Gesù che continua a rendersi presente nel bimbo che chiede di poter nascere, nel vecchio messo da parte, nell’ammalato privo di compagnia, nel forestiero esiliato, nel povero emarginato, in ogni piccolo e scartato della società; se non saremo capaci di fare questo, con quale coraggio chiederemo a quel Bambino di portarci salvezza?

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