Quanto abbiamo bisogno dei ponti di Langer…

Venticinque anni fa si toglieva la vita Alexander Langer. Era il 3 luglio. Pochi giorni dopo sarebbe iniziato il genocidio di Srebrenica, in Bosnia. Oltre 8.000 bosgnacchi massacrati dalla soldataglia serbo-bosniaca. Il politico sudtirolese, parlamentare europeo dei Verdi, si era speso fin dall’inizio delle guerre nei territori della ormai ex Jugoslavia per trovare soluzioni agli scontri. Con atti politici, marce, incontri sul posto tra chi quelle guerre non le voleva (perché c’era una società civile che chiedeva che le armi tacessero, in Croazia come in Slovenia, in Bosnia come in Serbia e non solo), l’istituzione del Verona Forum e poi di una Corte penale internazionale per giudicare i crimini compiuti in quelle terre. Un creatore di ponti, come è stato più volte sottolineato.

In libreria è da poco sugli scaffali “Quei ponti sulla Drina. Idee per un’Europa di pace” (Infinito edizioni, 13 euro), che “gioca” con il titolo di quel grande romanzo-epopea che è Il ponte sulla Drina del Nobel jugoslavo Ivo Andric. È un’antologia degli interventi di Langer sulla ex Jugoslavia pubblicati da giornali, riviste, contenuti nell’archivio del politico, frutto delle riflessioni e della sua attività parlamentare, in parte sono noti. La cura è di Edi Rabini, che fu stretto collaboratore di Langer e ora presiede la Fondazione Alexander Langer Stiftung di Bolzano, e della nipote del politico, Sabina Langer.

Mettendo in fila uno all’altro gli interventi emergono alcuni pensieri precisi che Langer cercò di far comprendere, inascoltato, alle massime autorità europee e mondiali. La convinzione che, giunti a un certo punto, quasi di non ritorno, fosse necessario un intervento di polizia internazionale con reali poteri per far tacere le armi. Langer, ricevendone anche molte critiche dal mondo pacifista tout court, non si schierò con quelli che chiamò “i pacifisti dogmatici”. E poi l’importanza di “accogliere” immediatamente la Bosnia dentro l’Unione europea per “defibrillare” la situazione.

Non andò così. I nazionalismi esplosero. Rimane una “macchia nera” dell’Europa, della sua ignavia, della scelta di perseguire interessi inconfessabili. Prima vennero riconosciute Slovenia e Croazia, le zone ricche della Jugoslavia, con le quali si potevano fare affari.

La Bosnia fu un bagno di sangue fermato dagli accordi di Dayton nel 1995 che altro non registrarono che la divisione etnica sul terreno. Con conseguenze nefaste ancora presenti. Non ultima la crescita di un islamismo radicale prima sconosciuto alla penisola balcanica. Seguirono i bombardamenti Nato sulla Serbia nel 1999, il fallimento totale della politica. E un Kosovo ancora instabile che ha iniziato il lento e difficile percorso di avvicinamento alla Ue, come la Serbia, la Bosnia Erzegovina, la Macedonia del nord e il Montenegro. Terre fragili dal futuro ancora incerto.

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