“Grazie amico Aldo, campione senza tempo”

Dario Pegoretti assieme ad Aldo Moser, con la sua bicicletta “Torpado” del 1956

“Sior Aldo, come si fa ad andare forte in bici?”, chiese un ragazzo di Canezza appassionato di ciclismo ad Aldo Moser, incontrandolo per caso in allenamento lungo le strade della Val d’Adige. E come suo solito, quello che era già un campione delle due ruote che già si guadagnava le copertine dei settimanali sportivi rispose con una sola parola, che però racchiudeva un mondo: “Chilometri”. Quel giovane in sella alla sua bici da corsa era Dario Pegoretti, che poi da amatore avrebbe conquistato quasi cinquecento vittorie grazie a quella risposta.

Aldo Moser e Canezza, la Val di Cembra e l’inizio della Valle dei Mòcheni, avevano stretto un profondo legame di amicizia grazie al Museo del Paracarro e quello delle bici dei campioni (creature proprio di Dario Pegoretti): Moser era sempre presente agli eventi in paese, tagliò addirittura il nastro per il museo delle bici, due anni fa la ciclostorica fu a lui dedicata con la sua Torpado del 1956 in bella vista.

Purtroppo, il campione cembrano è stato sconfitto da un avversario più forte, che gli ha tolto il fiato per vincere ancora una volta: Moser si è spento lo scorso 2 dicembre, dopo aver contratto il Covid-19. Domenica 7 febbraio avrebbe compiuto 87 anni, ed in quest’occasione Canezza, con Dario Pegoretti e gli altri campioni quali Marcello Osler e Lino Paoli lo vogliono ricordare ancora, per la sua amicizia.

Perché pochi ricordano che Aldo Moser, fratello di Francesco, si guadagnò copertine su copertine perché campione completo, tanto da essere paragonato al futuro di Fausto Coppi, il “campionissimo”.

Era l’inizio degli anni Sessanta ed il ciclismo viveva la sua stagione più bella, la popolarità delle due ruote era ai massimi livelli: si aprivano le stagioni delle prime trasmissioni televisive che fecero conoscere a tutti gli italiani le imprese di Gaul, Anquetil, Nencini, ed anche Aldo Moser.

Grazie alle sue doti di passista, scalatore, cronoman, Aldo Moser seppe imporsi come uno dei ciclisti più dotati e talentuosi dell’epoca (e le copertine a lui dedicate, per l’appunto, ne sono testimonianza). Nel suo palmarès figurano vittorie al Gran Premio delle Nazioni a Parigi, la Manica-Oceano a cronometro, la Coppa Bernocchi, il trofeo Baracchi, giorni in maglia rosa e tante altre. Così come tanti furono i piazzamenti alle spalle degli sprinter nelle volate, perché queste erano il suo punto debole.

La sua carriera ciclistica è stata comunque lunga, esemplare per impegno e professionalità, penalizzata solo forse da un carattere bonario, improntato all’umiltà, subendo anche qualche contrattempo e sottovalutazione in un ambiente che già all’epoca non era scevro da invidie e gelosie. Da questo insegnamento Aldo istruì il fratello Francesco, raccomandandogli di farsi rispettare. Ed è grazie a lui, lo si può dire senza timore di smentita, che il Checco nazionale divenne “lo sceriffo”.

Aldo, come detto, era poco loquace, essenziale, umile e buono: la risposta che diede a Pegoretti ne sintetizza l’essenza. Ma quando Moser veniva a Canezza, si scioglieva in racconti ed aneddoti che meriterebbero un libro: raccontava, ad esempio, di quando Coppi gli promise dei soldi purché si prodigasse a tirare in un’edizione del Giro di Lombardia (promessa poi non mantenuta), o di quando Jaques Anquetil gli passò una borraccia che al posto dell’acqua conteneva champagne, o ancora di quando si presentò alla sua prima corsa con una vecchia e sgangherata bicicletta, con la quale riuscì comunque a vincere.

Questo era Aldo Moser, protagonista dello sport italiano, orgoglio trentino, rampollo dell’aristocrazia del ciclismo.

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