Il caso Zaki e l’incubo dei dittatori

Patrick Zaki, lo studente egiziano iscritto ad un prestigioso master europeo presso l’Alma Mater dell’Università di Bologna

Come un inumano rito burocratico, la carcerazione preventiva di Patrick Zaki è stata nuovamente prolungata. Ogni volta così, per 11 volte, da oltre un anno. Come è noto, lo studente egiziano iscritto ad un prestigioso master europeo presso l’Alma Mater dell’Università di Bologna è accusato di avere diffuso messaggi violenti e in odore di terrorismo. Per “festeggiare” il suo anno di carcere duro senza processo né prove evidenti, il governo del generalissimo Abdel Fattah al-Sisi ha pensato bene di arrestare al suo ritorno sul suolo egiziano un altro studente, Ahmed Samir Abdelhay Ali, iscritto all’Università europea di Vienna. Stesse accuse, stessi sospetti e stessa detenzione preventiva.

C’è da chiedersi quale fobia spinga il Presidente al-Sisi, a capo del più potente esercito del Nord Africa, a dare la caccia ai propri studenti trasferitisi all’estero per perfezionare la conoscenza. Ecco, la conoscenza è l’incubo inconfessato di questi dittatori e dittatorelli che infestano il nostro mondo.

Analogo discorso può essere infatti applicato a Recep Tayyip Erdogan che osa imporre un rettore politico ad Istanbul con l’obiettivo di soffocare l’autonomia accademica o perfino all’autocrate ungherese Viktor Orbàn che caccia da Budapest l’Università europea nata subito dopo il crollo del comunismo, quale segnale potente del rinnovamento democratico di quella società. Esempi che possono moltiplicarsi in moltissimi altri casi nel mondo.

Conoscenza, studio, esercizio dello spirito critico sono elementi costitutivi della libertà e della democrazia. L’esatto contrario del pensiero unico dei populisti e nazionalisti che con metodo autoritario vogliono salvaguardare il loro potere.

Ma al di là di queste per noi ovvie considerazioni, vale la pena interrogarsi su quale dovrebbe essere la giusta ed efficace reazione delle nostre società e dei nostri governi democratici di fronte a queste nefandezze, che possono facilmente portare ad episodi come quello subìto da Giulio Regeni.

A livello di società una delle opinioni prevalenti è quella che sostiene la necessità di tenere alta e costante l’attenzione mediatica su questi eventi. I social, i mass media, le manifestazioni pubbliche (anche se difficili in tempi di pandemia) devono diffondere un rumoroso tam tam, che si proponga almeno di tenere in vita le persone ingiustamente accusate. Non va rifatto l’errore di mantenere riservata la notizia della sparizione di Regeni, che portò dopo nove lunghi giorni al ritrovamento del suo cadavere torturato dai servizi segreti di al-Sisi.

Bene quindi le ampie mobilitazioni di questi giorni in sostegno della libertà per Zaki. Ma se una massiccia reazione pubblica può servire a rendere meno agevole l’operato dei persecutori è anche abbastanza evidente che i suoi effetti finiscono per essere limitati. Basti ricordare i numerosi casi di oppositori politici condannati e giustiziati dai regimi dittatoriali malgrado le proteste dell’opinione pubblica mondiale. Più efficace potrebbe e dovrebbe essere un deciso impegno a denunciare una palese ingiustizia da parte dei governi democratici.

Nel caso di Zaki, come in quello ben più drammatico di Regeni, il governo a doversi muovere è stato, ed è ancora, quello italiano. Non si può davvero dire che i risultati siano stati fino ad oggi positivi. Le ragioni sono molteplici. La prima è che gli interessi commerciali ed economici fanno da freno ad azioni politiche forti.

Il contratto da 9 miliardi di euro con Fincantieri per l’acquisto da parte del Cairo di armamenti e gli accordi di ricerca e sfruttamento da parte di Eni del ricchissimo giacimento di Zohr nel Mediterraneo ne sono una chiara dimostrazione. Per poterli utilizzare come minaccia contro il governo di al-Sisi occorrerebbe l’adesione di altri governi, come quello francese o russo pronti invece a sostituirsi a noi.
Ed è qui la seconda ragione di difficoltà: in questi casi occorrerebbe riuscire a dare vita ad un’ampia coalizione di governi pronti ad appoggiare l’Italia a premere su al-Sisi. Occorrerebbe, in particolare, che fosse l’intera Unione europea a farsi carico di questa pressione.

Ma di Europa in questi casi non si vede traccia. Infine, ed è il terzo motivo, bisogna essere sinceri con noi stessi. A sperare di influenzare l’operato di un autocrate o di un dittatore occorrono leader e capi di governo di grande spessore morale e di credibilità internazionale. Per un Paese come il nostro che cambia governo in media ogni anno e mezzo, tale credibilità e forza politica sono lungi dall’essere raggiunte. Certamente, in questi ultimi anni, non possiamo illuderci di avere avuto personale politico e di governo di tale livello.

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