8 marzo, i veri ostacoli alla parità di genere

Undici anni fa, quando discutevo la tesi di laurea specialistica dal titolo “Indagine sulle differenze e sulle discriminazioni di genere nella professione giornalistica”, ero convinta (teoricamente) delle mie argomentazioni su temi cruciali: il perdurante divario di genere, il cosiddetto “soffitto di cristallo” (che impedisce alle donne di raggiungere le posizioni di vertice), la difficoltà di conciliazione lavoro-famiglia, l’autoesclusione. A sostenerle c’era una folta bibliografia con dati che dimostravano quanto fossero diffuse le discriminazioni di genere fuori e dentro le redazioni dei giornali: nei tassi di occupazione, nei salari, nelle ore lavorative, nelle posizioni di vertice, nella divisione delle responsabilità domestiche.

La crisi finanziaria del 2008 era appena terminata e aveva lasciato strascichi dolorosi soprattutto per le donne. Soprattutto in Italia.

Ma un decennio dopo siamo messi peggio. Stiamo fronteggiando una pandemia e i dati sono ancora più preoccupanti. L’Istat ha appena certificato 101 mila posti di lavoro persi a dicembre 2020; 99 mila erano donne. Se già prima il nostro Paese era in fondo alla classifica sull’occupazione femminile, oggi è sceso sotto la soglia del 50%, contro una media europea del 66%.

Più di una donna su due non lavora. Come si fa ad ignorare un simile dato di fatto? Soprattutto quando si tratta di ripartire dopo una crisi globale, non si può prescindere dalla valorizzazione dell’occupazione femminile. Le proiezioni OCSE mostrano che – a parità di altre condizioni – se nel 2030 la partecipazione delle donne raggiungesse quella degli uomini, la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il PIL pro-capite di 1 punto l’anno.

Ma quella per far lievitare l’uguaglianza è una ricetta complessa: i divari sono così ramificati e radicati che non basta un solo intervento per appianarli. Bonus e incentivi non funzionano se non si agisce anche sulla conciliazione, sulla erosione della cultura sessista nei luoghi di lavoro, sulla divisione più equa dei compiti di cura.

Undici anni fa, mentre scrivevo la tesi, credevo di avere compreso la portata di tutti gli ostacoli che impediscono la parità di genere.

In realtà, solo da quando sono diventata mamma ho capito veramente le difficoltà di conciliare la cura della famiglia con il lavoro. È una sfida da acrobata nella quale solo se si è perfettamente bilanciate si riesce ad arrivare alla fine della giornata tutte intere. Un equilibrio basato sulla disponibilità di servizi di conciliazione, sulla condivisione equa con il partner delle incombenze domestiche e sulla flessibilità garantita dal datore di lavoro. Quando tutte queste variabili funzionano, quando non siamo costrette a scegliere tra affermazione professionale, indipendenza economica e la gioiosa responsabilità di crescere un bambino, ne esce un incastro armonico. Quello di una famiglia, fondata su condivisione di valori e reciprocità, con entrambi i genitori allo stesso livello.

In molti ora affermano che i periodi di crisi come quello epocale segnato dal Covid sono perfetti per avviare il cambiamento. Con la speranza che, una volta avviato il processo, per i nostri figlie e figli sarà naturale trascorrere alcuni mesi dell’infanzia con il papà in congedo, sapere che la mamma – se vuole – può lavorare a tempo pieno e avere un incarico di responsabilità. Per le nuove generazioni sarà scontato che uomini e donne collaborino nelle faccende domestiche e nella cura. Per le donne significherà non dover più stare in equilibrio su una corda, con l’ansia di precipitare, ma poter serenamente camminare con i piedi per terra.

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