Lesbo, la lunga attesa nei campi profughi. La testimonianza di Sara Podetti

Sara Podetti nel campo di Pikpa nel 2020.

La storia di Sara Podetti, 25 anni, parte da Commezzadura in Val di Sole e va alle isole greche, come Lesbo, oggi approdo di un’immigrazione dolente di gente che è scappata dalle guerre e dalla persecuzione (sono afgani, curdi, siriani, iracheni, tantissime famiglie e minori non accompagnati). L’Erasmus a Istanbul, cinque anni fa, uno dei nodi delle correnti migratorie dal Medio Oriente, ha in qualche modo segnato la vita di questa giovane donna. Di seguito, tre esperienze sulle isole greche a stretto contatto con i migranti e una ad Atene per dare sostegno educativo ai bambini. “Queste esperienze hanno segnato le mie scelte nello studio magistrale -osserva Sara- ho scelto Antropologia Culturale ed Etnologia per avere più strumenti per stare vicina a queste persone, ed ho fatto un tirocinio al Centro Astalli di Trento”.

Ad un buon gruppo di volontari della Caritas dell’Alta Val di Non, nei giorni scorsi, Sara ha fatto conoscere la sua esperienza e le sue scelte suscitando interesse e soprattutto innescando la voglia di dare risposte concrete: non si può rimanere indifferenti di fronte a certe situazioni.

I centri di accoglienza nelle isole greche, come a Lesbo, sono super affollati e la gente è costretta a vivere con scarsissimi servizi. “All’ interno del Nuovo Campo costruito a fine settembre in seguito all’incendio di Moria, le persone vivono ammassate in tende spesso invase dal fango, in condizioni igieniche terribili, senza accesso a cure mediche adeguate” dice accorata Sara.

Adesso questa giovane laureanda dallo sguardo luminoso sta preparando la tesi di laurea che verte proprio sulla situazione dei bambini migranti in Grecia e nel suo immediato futuro si intravedono orizzonti vasti: “Finora ho vissuto queste esperienze come volontaria, spero di poter lavorare in questo campo, come antropologa e ricercatrice sociale. Nella mia mente c’è soprattutto la voglia di stare a fianco a queste persone e far riconoscere la loro dignità. Ho lavorato molto con i bambini, che spesso sono coloro che manifestano i sintomi della violenza della frontiera, smettono di parlare e mangiare, si chiudono in sé stessi, a volte manifestano istinti suicidi. In questi anni ho raccolto tante storie, ti toccano, ti cambiano”.

Come la storia di Mina, una donna afgana di 22 anni, ha una figlia di 3 ed ha partorito mentre veniva picchiata dai medici iraniani, discriminata proprio in quanto afgana. Arrivata a Lesbo, la guardia costiera l’ha portata a riva priva di sensi, svenuta. “Ha vissuto all’interno del campo di Moria e poi dopo una traumatica aggressione, è stata trasferita nel campo di Pikpa dove l’ho incontrata. Ha uno sguardo deciso e una bellissima curiosità verso il mondo. Vivere a Lesbo la sta lentamente logorando, esaurendo. Le attese infinite sono ciò che sfinisce le persone più di ogni altra cosa. Nei campi di Lesbo, e della Grecia in generale, l’attesa è ciò che riempie la quotidianità. Senza sapere che cosa ti accadrà, se la tua richiesta d’asilo verrà accettata o verrai deportato, se tuo figlio potrà un giorno tornare a scuola ma anche senza sapere se oggi un medico riuscirà a visitarti. Le giornate sono fatte di attesa e file infinite”.

Sara continua a raccontare: “Bahar, che significa primavera, ha 25 anni ed è nata pochi giorni dopo di me. Ogni volta che guardandola negli occhi ho visto la disperazione, non ho potuto non pensare che potrei essere io al suo posto. È arrivata a Lesbo a novembre 2017, ha vissuto all’interno del campo di Moria, del campo di Pikpa e ora si trova a Kara Tepe. Provengono dal Kurdistan iracheno, hanno lasciato la loro casa all’improvviso quando la loro famiglia è stata minacciata di morte, hanno attraversato la Turchia e il Mar Egeo, fino a Lesbo. La loro richiesta d’asilo è stata rigettata per ben due volte dalla Grecia, e lo scenario che a loro si apre è quello della deportazione in Iraq. Il figlio minore della zia di Bahar, che lei aiuta ad accudire, ha quasi tre anni e non ha mai vissuto in una casa”. In genere le persone arrivano in Grecia credendo che i loro bambini cominceranno finalmente a vivere una vita normale. È questo il motivo per cui corrono il rischio del viaggio (i pericoli sono tantissimi).

Quando capiscono che non sarà così, il loro morale subisce un vero e proprio tracollo. “Vedere i propri figli crescere senza un futuro e privati della loro infanzia è qualcosa di straziante. Vivere in baraccopoli, nella paura, nell’incertezza, è mentalmente e fisicamente debilitante. Non vi è possibilità di mettere i pensieri in ordine”. “Ciò che fa più male della situazione di Lesbo, è sapere che noi, come cittadini europei, siamo direttamente responsabili di ciò che accade lì. L’Europa deve fermare questa follia… Le politiche messe in atto negli ultimi cinque anni mirano a privare persone vulnerabili della loro dignità e salute nel tentativo di scoraggiare altri dal venire in Europa. Questo è crudele ed inumano, e non ha fermato i flussi migratori”. Ora, dopo cinque mesi, Sara è rientrata in Italia ma continua a mantenere i contatti e supportare le persone che vivono lì anche da remoto, nella speranza di poter un giorno condividere con loro esperienze migliori.

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