Sulle lotte contadine l’India si gioca il futuro

Resta difficile nel subcontinente indiano la situazione a causa del Covid-19. Foto Ansa/Sir

Insistono i contadini indiani, da diversi mesi le proteste montano e si intensificano ovunque arrivando a concentrarsi a Delhi, fermate a malapena dalla polizia. Sono furibondi. L’oggetto del contendere, per così dire, sono alcune leggi in vigore, fortemente volute dal premier Modi, che una volta entrate a dispiegare in pieno i loro effetti li danneggerebbero in modo irreversibile diminuendo il potere contrattale (dunque il loro stesso essere farmers, contadini, la loro ragion d’essere, cioè il rapporto medesimo con la terra e i prodotti che coltivano e poi commerciano) a tutto vantaggio delle multinazionali dell’agrobusiness. Ciò che viene spacciato per modernizzazione dell’agricoltura, dai contadini è visto come un attacco diretto alle capacità, al potere d’acquisto e dunque alla stessa sopravvivenza delle loro famiglie.

Sono piccoli agricoltori e braccianti uniti in una fruttuosa e inedita alleanza: coltivatori diretti del proprio fondo che hanno una “cultura” della terra e salariati agricoli non necessariamente adusi ad “amarla”, la terra, perché lavorano per conto di altri. Non si tratta solo di prezzi minimi da salvaguardare sui prodotti agricoli, garanzia di base per poter continuare a lavorare. In realtà si tratta di spostare il baricentro del potere – oggi fortemente diseguale e asimmetrico – da chi è di per sé forte, anzi fortissimo, protetto (per mezzi, capitali, interessi, protezioni, rendite consolidate), a chi è debole.

A ben pensarci è in ballo la stessa concezione dell’India moderna – la più estesa e popolosa democrazia del mondo, oggi con venature fortemente autoritarie – e il fatto stesso che i contadini rappresentino la metà del miliardo più che abbondante di abitanti la dice lunga sulla posta in gioco: una Weltanschauung, una “visione del mondo” complessiva. Il continente indiano rimarrà se stesso, certo con le sue contraddizioni e aporie; oppure verrà messo in liquidazione, svenduto nei suoi gangli vitali come il lavoro – la sua forza-lavoro – al miglior offerente? Il premier Narendra Modi, alla guida di un regime sempre più prepotente, e il suo ministro dell’Interno Amit Shah non guardano alle mezze misure, trattano i manifestanti contadini con le spicce. Per loro l’identità nazionale dell’India si identifica (deve identificarsi manu militari) con l’ideologia hindu; non a caso si sono immedesimati in modo quasi ossessivo con il motto “Hindu, Hindi, Hindustan!”, vale a dire: una religione, una lingua, una patria!

Tutto l’opposto della convinzione maturata del Mahatma Gandhi di “trattare le nostre minoranze nello stesso modo con cui trattiamo la maggioranza”. Scardinando così, radicalmente, non solo il pensiero gandhiano che aveva fatto della nonviolenza attiva il simbolo della lotta contro il regime coloniale britannico, ma la stessa visione di Jawaharlal Nehru (l’altro grande “padre” della democrazia indiana), che nutriva un progetto dell’India come una Nazione composita frutto di civiltà che per secoli avevano saputo assimilare tradizioni culturali e religioni diverse. “Unità nella diversità” era un suo slogan nella pratica di governo. Ora Narendra Modi e il suo gruppo hindu al potere del Bharatiya Janata Party (Bjp) hanno deciso di percorrere la strada opposta, con esiti facilmente prevedibili, confliggenti e devastanti.

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