I no vax pentiti e il dialogo a oltranza

Il camper vaccinale

Rilanciati dalla certezza del Natale, affrontiamo con fiducia le insicurezze di questo inizio d’anno, rincorrendo la variante Omicron, per indebolirla. Una spinta viene dalle parole di quanti ora si sono pentiti di non aver fatto il vaccino: “Mi hanno salvato per un pelo, mi stavo lentamente spegnendo – ha testimoniato il 3 gennaio su l’Adige il trentino Graziano Dallapietra, 53 anni, un figlio di 4 anni – ed ora voglio raccontare quanto ho vissuto, per far capire l’importanza di questa scelta: è il vaccino l’unica arma, quella che impedisce di vivere la mia situazione. Ora l’ho capito”. Molti altri, prima contrari per paura delle conseguenze del vaccino o per altri personali motivi, hanno maturato questa consapevolezza solo al ricovero in condizioni gravi, convinti dalle spiegazioni e dagli scenari presentati loro da rianimatori esperti. È un pentimento che andrebbe fatto conoscere a tanti no vax, almeno a quelli tiepidi e disorientati. Possibilmente, in anticipo. Perché poi – come ci ripetiamo in tanti altri campi della vita – “pentirsi” non è mai una debolezza, un’ammissione di fallimento. Anzi, può essere l’affermazione di un sofferto ma “conquistato” cambiamento di convinzioni, un percorso interiore determinato da acquisizioni scientifiche o da autorevoli figure mediche che hanno fatto breccia in posizioni forse superficiali o semplicemente sbrigative.

Nell’approdare a questa maturazione era bastato per alcuni (meno del previsto, in verità) il richiamo della “Maratona vaccinale”, per altri si sta rivelando convincente l’obbligo di Green pass rafforzato, ora esteso ad altri luoghi di lavoro. Le testimonianze di questi pentiti – così come quelle di tanti “guariti” raccolti nel libro di Luigi Accattoli e Ciro Fusco, edito da ViTrenD – possono essere una pacifica arma di convinzione di massa: fateli conoscere, segnalateceli.

Manca ancora qualche milione di italiani (e migliaia di trentini) a quell’appello che potrebbe infiacchire definitivamente la forza del coronavirus pur imprevedibile nelle sue mutevoli configurazioni: “I vaccini sono stati, e sono, uno strumento prezioso – ha scandito Sergio Mattarella nel discorso di fine settennato – non perché garantisca- no l’invulnerabilità ma perché rappresentano la difesa che consente di ridurre in misura decisiva danni e rischi, per sé e per gli altri”. E, invitando a non cedere alla frustrazione, il Capo dello Stato ha aggiunto con severità: “ Ricordo la sensazione di impotenza e di disperazione che respiravamo nei primi mesi della pandemia di fronte alle scene drammatiche delle vittime del virus. Alle bare trasportate dai mezzi militari. Al lungo, necessario confinamento di tutti in casa. Alle scuole, agli uffici, ai negozi chiusi. Agli ospedali al collasso. Cosa avremmo dato, in quei giorni, per avere il vaccino?” – è stata la conclusione di Mattarella – . “La ricerca e la scienza ci hanno consegnato, molto prima di quanto si potesse sperare, questa opportunità. Sprecarla è anche un’offesa a chi non l’ha avuta e a chi non riesce oggi ad averla”.

L’invito a rivalutare le proprie posizioni – insieme ad una disponibilità al dialogo a oltranza, richiamato anche dal Papa e dall’Arcivescovo “sulla base di reciproca fiducia” e nel rispetto delle regole – va esteso anche a quella quota di “irriducibili” che si ritrae ritenendosi discriminata. Alcuni di loro arrivano a rifiutare le cure condannandosi ad una angosciosa morte per soffocamento, con i problemi etici segnalati nel recente documento della Siaarta, la Società dei medici anestesisti e rianimatori, che sono tenuti a garantire a tutti le cure (senza criteri selettivi) e insieme a chiedere il consenso del malato. Molti “irriducibili” si schierano strenuamente “contro”, in un’intransigenza granitica pari a quella che condannano.

Anche con questa rigidità però possiamo e dobbiamo usare la strategia disarmante del dialogo: i pentiti di queste settimane indicano che anche questa è una strada da percorrere per uscire insieme dal tunnel.

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