Kazakistan, il Grande Gioco dello “zar” di Mosca

Manifestazione nella piazza centrale di Aktobe, il 4 gennaio scorso. Foto Wikimedia

Il pugno di ferro di Vladimir Putin si è nuovamente abbattuto sulle rivolte di alcune popolazioni dell’ex impero sovietico. I primi ad assaggiarlo sono stati nel 2014 gli ucraini che contestavano il “padre della patria” Viktor Janukovic, accusato di avere respinto sotto la pressione di Mosca un vantaggioso accordo con l’UE. In quell’occasione i rivoltosi avevano vinto eleggendo un nuovo presidente. Ma poi era arrivata la ritorsione. L’Ucraina aveva dovuto cedere la Crimea alla Russia e fronteggiare un’aggressione alle frontiere orientali nel Donbass, attiva ancora in questi giorni con ben 100 mila soldati, carrarmati e cannoni russi pronti ad invadere il Paese. La seconda grande rivolta democratica del 2020 in Bielorussia, contro i brogli elettorali che avevano permesso al dittatore Alexander Lukascenko di mantenere il pluridecennale potere, si è spenta nel sangue con il sostegno diretto del sempre presente leader russo. Oggi, infine, è la volta del Kazakistan che ha visto la trasformazione di una protesta popolare, causata dall’aumento del prezzo del gas (in uno dei maggiori Paesi produttori), in una vera e propria guerriglia contro il potere di un altro “padre della patria”, Nursaltan Narazbayev. Anche in quest’occasione Putin ha mosso i propri soldati e blindati per “liberare” l’aeroporto di Astana e permettere al nuovo presidente Kassym –Jomart Tokayev, di soffocare duramente la rivolta. Abbiamo quindi nuovamente assistito all’ulteriore conferma della politica di intervento militare che ha contraddistinto fin dall’inizio l’attività dell’ex-spia del KGB, Vladimir Putin. Non bisogna infatti dimenticare anche la brutale repressione in Cecenia all’inizio della sua presidenza o l’invasione delle regioni nordorientali della Georgia o, ancora l’aiuto militare all’Armenia di fronte ad una sicura sconfitta per mano dell’Azerbaijan. Per non parlare poi delle conquiste in Siria in aiuto del regime di Bashar al-Assad o della presenza dei suoi contractors armati in Libia a favore del generale ribelle Khalifa Haftar. Ma rimanendo all’est Europa e al Caucaso va sottolineato come la politica aggressiva di Putin non sia dettata da soli interessi economici. Nel caso del Kazakistan essi potrebbero forse prevalere poiché, come è noto, il Paese è estremamente ricco di gas e di minerali, a partire dall’uranio e dalle terre rare essenziali per i semiconduttori. In realtà queste grandi potenzialità fanno molta gola anche ad altri Paesi, fra cui gli europei, ma soprattutto alla Cina che vuole sviluppare, unico Paese al mondo, 17 nuove centrali nucleari e che quindi deve alimentarle con nuove importazioni di uranio. E non è neppure la famosa base missilistica di Baykonur, utilizzata da Mosca per la propria redditizia politica spaziale, a giustificare da sola l’invio di soldati. L’interesse di Vladimir Putin è molto più grande e fa riferimento a due criteri guida. Il primo è quello di proteggere ovunque, in Europa e nel Caucaso, la presenza di minoranze russofone nei diversi Paesi. Ciò è valido per la Bielorussia come per l’Ucraina e pure per il Kazakistan. Ma anche in tutti gli altri casi sopra ricordati si è sempre palesato un elemento etnico-nazionalistico nelle mosse del leader del Cremlino. Anzi, fa proprio parte della sua filosofia quella di valorizzare fino alle estreme conseguenze l’appartenenza al ceppo russo di minoranze che risalgono addirittura ai tempi degli zar. Anche allora gli eserciti di Pietroburgo si spingevano a sud a combattere i canati turcomanni del Caucaso non solo per ragioni commerciali, ma anche per liberare i cittadini russi che venivano fatti schiavi da quelle feroci popolazioni. Il secondo criterio, ancora più consistente, è quello che spinge Putin ad individuare nell’Occidente il grande nemico della Russia. Nemico che va fermato ad ogni costo, anche attraverso l’uso dello strumento militare non appena si intravvede il rischio di una perdita di influenza sull’ex-impero sovietico. Sembra davvero di essere ripiombati nell’Ottocento, ai tempi del Grande Gioco, quando Inghilterra e Russia zarista si combattevano subdolamente per ampliare le proprie aree di influenza nell’Est Europa e nel Caucaso. Oggi per Putin l’Occidente è rappresentato soprattutto dagli Usa e non dall’Unione europea. Ciò per due motivi. Il primo è che a Putin interessa essere considerato come il leader di una grande potenza mondiale, come ai tempi dell’Urss, e quindi l’interlocutore di livello appropriato si trova solo a Washington. Il secondo è che, passando sopra la testa dell’Unione europea, egli intende proseguire la sua politica di divisione sia fra gli stati europei, non tutti convinti nell’adottare eventuali misure di ritorsione contro Mosca, sia fra l’Ue e gli Stati Uniti, sempre più lontani nelle loro visioni geopolitiche. In quest’ottica il Kazakistan rappresenta l’ennesima prova dell’ambizione imperiale dello “zar” di Mosca e un avvertimento agli europei, forse non sufficientemente percepito, dei rischi che l’UE corre nel sottovalutare la minaccia russa.

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