La corsa agli armamenti non garantisce sicurezza

Il Fondo Europeo per la Difesa (EDF 2021-2027) ha un budget senza precedenti di 8 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo di sistemi militari: un sostegno attivo ad una corsa agli armamenti molto pericolosa che alimenta le fiamme di guerra, denunciano Enaat e Transnational Institute nel loro ultimo rapporto (vedi a pagina 19) Illustrazione da “Fanning the Flames”, ENAAT-TNI, marzo 2022

Come c’era da aspettarsi, la guerra della Russia contro l’Ucraina ha riproposto vecchi e mai risolti interrogativi che, in sintesi, riguardano il tema delle armi e del loro uso. Per essere più precisi la questione va affrontata da due punti di vista distinti. Il primo è se si ritenga lecito ed opportuno fornire nuovi armamenti alla parte aggredita, l’Ucraina, per cercare di resistere alla superpotenza russa.

In realtà, la Nato ha cominciato a trasferire materiale militare e ad addestrare un debolissimo esercito ucraino già nel 2014, all’indomani della prima aggressione di Mosca nell’est di quel Paese, cui era seguita l’annessione della Crimea.

Questa azione di aiuto è continuata con maggiore intensità dopo l’elezione alla presidenza di Volodymyr Zelenskyj nel 2019 e al fallimento del suo tentativo di raggiungere un accordo di pacificazione con Mosca.

Oggi, di fronte al massiccio attacco russo e alla inaspettata capacità di resistenza di Kiev, è nato il problema di rifornire di ulteriori armi gli ucraini in lotta per il loro Paese. Fallita la blitzkrieg di Vladimir Putin, l’idea è infatti quella di prolungare il conflitto ed obbligare alla fine Mosca a concedere il cessate il fuoco per poi intavolare serie trattative. Il tempo, in effetti, milita contro le mire di conquista del nuovo “zar”. Anche per la Russia che spende 10 volte più dell’Ucraina in armamenti, il costo di una guerra che duri troppo può essere insostenibile.

Quella di prolungare il conflitto attraverso il rifornimento di nuove armi a Kiev non è certo una decisione facile da prendere. I contrari sottolineano il fatto che così facendo si moltiplicano le sofferenze di quella popolazione. I favorevoli ritengono invece che non sia accettabile favorire gli obiettivi di Mosca, che ci ha fatto ripiombare in una guerra di aggressione nel cuore dell’Europa dopo l’ultimo conflitto mondiale. Se Putin non viene bloccato in Ucraina, domani sarà la volta della Georgia, della Moldavia e magari di altri Paesi oggi nella Nato e nell’UE, ma che una volta erano parte dell’Urss.

Per i cattolici, in particolare, la scelta non è indolore. Vanno quindi accolte le parole del cardinale Pietro Parolin, il quale ci ricorda che il “diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi”. Una posizione analoga era già stata espressa molti anni fa da papa Woytila.

Diverso invece è l’altro aspetto riguardante il tema degli armamenti e cioè la decisione, ribadita a Bruxelles dai Paesi membri della Nato, di aumentare le spese nazionali della difesa, quasi come risposta diretta alla guerra di Mosca. Abbiamo detto “ribadita”, perché in effetti la decisione di portare al 2% del Pil le spese per la difesa risalgono al Vertice Nato di Glasgow del 2014, proprio in concomitanza con l’annessione della Crimea da parte di Mosca. Ma anche allora la questione non era nuova. Le varie amministrazioni americane avevano sempre richiesto un maggiore contributo agli europei per la difesa collettiva: era il cosiddetto “burden sharing”, cioè la condivisione dei pesi in un’alleanza militare. La richiesta si era tuttavia affievolita una volta cessata la guerra fredda con il crollo dell’Unione Sovietica.

Ora che il nemico è riapparso nei panni di Putin, quella antica proposta diventa pressante e difficilmente rifiutabile da parte europea, anche perché gli Stati Uniti sono ormai molto più impegnati sul fronte del Pacifico in funzione anti-Cina. Fatte queste premesse, i tempi e l’accelerazione delle decisioni in merito, che riguardano da vicino molti Paesi europei, fra cui il nostro, mandano un messaggio di corsa agli armamenti che pensavamo di avere ormai accantonato. Di qui nasce comprensibilissimo il grido di dolore di papa Francesco sulla “pazzia” nel puntare tutto o quasi su questa volontà di riarmo. Basta guardare ad alcune cifre diffuse dal Sipri svedese, un centro di studi sulla pace. Nel solo 2020 la cifra globale di spese nazionali per la difesa è arrivata a 19 mila miliardi di dollari. Una somma stratosferica e non del tutto veritiera, poiché molte voci sono scarsamente controllabili e spesso nascoste nei bilanci di alcuni Paesi. Naturalmente sono gli Usa ad “eccellere” con 778,2 miliardi di dollari, la Cina con 252,3 miliardi e la Russia, più lontana, a 62 miliardi.

Il dato stupefacente è tuttavia quello relativo all’Unione Europea di ben 219,6 miliardi, poco sotto la Cina. Ma con l’aggiunta della Gran Bretagna il totale dell’Europa occidentale ci colloca al secondo posto in questa non invidiabile classifica.

Il vero problema, tuttavia, non è solo la grande spesa complessiva degli europei, ma il fatto che essa non è comune. È infatti il risultato di 27 disorganiche spese nazionali, con un’impressionante duplicazione di armamenti e di singoli eserciti, non in grado di dare risposte efficaci ad eventuali minacce esterne. Aumentare la spesa della difesa per ottemperare alle decisioni della Nato potrebbe meglio giustificarsi se si affrontasse contemporaneamente un progetto di difesa comune europea. Ma non solo per dare vita ad un unico esercito, ma per completare il vecchio e mai raggiunto obiettivo di un’Unione politica. Un’Unione che eviti il ritorno, come si sta manifestando oggi, ad un sistema di relazioni internazionali basate sull’equilibrio (o meglio squilibrio) fra singole potenze nazionali.

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