Demagogia sulla guerra e politica delle cose

I sindacati trentini sulle dimissioni di Draghi: “Lo scenario peggiore per il Paese”. Foto Ansa/Sir

Sottrarsi alle varie demagogie sulla guerra in corso è un’impresa quasi titanica considerando il continuo martellamento sul tema che ci infliggono i media, specie le televisioni. Molti partiti accorrono su quel palcoscenico per ottenere consensi e non accade solo in Italia coma dimostra il caso francese, dove il successo della destra di Le Pen e della sinistra di Melenchon (il 40% abbondante dell’elettorato se si sommano i due risultati) viene attribuito al loro insistere sui problemi che una recessione infliggerà alla gente comune.

Eppure non sono buone politiche e non è neppure detto che portino chi pratica alla vittoria. Le paure per un futuro incerto e al momento poco roseo ci sono e sarebbe stupido negarlo. Che la gente voglia ancora affrontarle a suon di slogan che promettono di fermare il mondo restaurando il tempo che fu, è da verificare. Proprio la pandemia, niente affatto completamente debellata, ci ha abituati a non fidarci di quelli che sanno sempre come si potrebbe evadere dalla realtà, visto che poi la realtà si impone e non si fa piegare da parole al vento.

Questa promessa serve a mettere in luce lo scontro sordo che si sta aprendo fra una parte cospicua della nostra classe politica e l’attuale gruppo di governo, premier Draghi in testa, che a sua volta raccoglie una sua notevole quota di consenso nell’opinione pubblica. I primi lavorano a cavalcare le paure del futuro promettendo che non lasceranno che qualcosa cambi: niente tasse, revisione del catasto, riforme necessarie a rendere il Paese meno sbilanciato nella gestione della sfera economico-sociale. I secondi cercano di prendere sul serio quanto accade ed operano ad individuare provvedimenti che possano far fronte all’emergenza.

Il discrimine fra le due componenti è che la demagogia diffonde l’illusione che si possa davvero fermare il mondo con una decisione, mentre il realismo deve proporre soluzioni che hanno bisogno di tempo per mostrare i loro effetti. Proprio la necessità di disporre di “tempo” innesca la necessità di avere fiducia nei governi che è un bene carente nel nostro Paese: quando si prospettano risultati che arriveranno col tempo, viene il sospetto, per certi versi non infondato, che si tiri a campare e poi si vedrà.

Draghi sta subendo questa morsa ed è un handicap non da poco viste le circostanze. Poiché la crisi è internazionale, ci sarebbe bisogno di agire in quel contesto mostrando di avere le spalle coperte da un sistema politico che, per dirla brutalmente, si tira dietro il Paese. Siamo in periodo elettorale, ce lo siamo detti più volte, e troppi partiti non sanno rinunciare ai dividendi della facile demagogia: a volte sparandola grossa, a volte semplicemente piantando inutili bandierine giusto per far vedere che esistono (si veda il dibattito surreale sulle riforme giudiziarie).

Nonostante questo Draghi continua a lavorare per raccogliere risorse con cui rispondere alle prevedibili difficoltà in arrivo. Certo la formidabile risorsa del PNRR non versa nelle migliori condizioni. Non solo i piani che si sono fatti si misuravano per forza di cose su costi e disponibilità che oggi sarebbero da rivedere, ma la complessa macchina pubblica necessaria per far marciare le iniziative mostra molte inadeguatezze a cui non è facile mettere rimedio, soprattutto adesso che il quadro è profondamente mutato.

Viene così a mancare un elemento che si pensava potesse aiutare a “tenere a riga” i partiti che avrebbero rischiato molto a mettere i bastoni fra le ruote alla macchina degli investimenti legati alla disponibilità del Recovery europeo. Oggi le forze politiche, sia quelle strutturalmente più irresponsabili sia le altre che però non mancano di elementi irresponsabili al loro interno, credono di avere ampia libertà di azione, tanto quel che eventualmente faranno andare male sarà addebitato ai tempi calamitosi in cui viviamo.

Del resto è molto difficile costringere chi rema contro a prendersi la responsabilità delle proprie azioni, perché vorrebbe dire disfare la coalizione di quasi unità nazionale che Mattarella a suo tempo ha quasi imposto.

Significherebbe aprire una crisi al buio i cui esiti sono imprevedibili sul piano politico, ma assai prevedibili su quello economico sociale, dove avremmo, ben che vada, una mezza catastrofe. Fin lì non si vorrebbe spingere nessuno, ma non basta, perché c’è bisogno di una solidarietà compartecipe del fare altrimenti la crisi politica continuerà a rafforzarsi e sarà difficile evitare che precipiti.

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