La crisi del bipolarismo all’italiana

La prima pagina del quotidiano Il Foglio di martedì 26 aprile

Inevitabili le elucubrazioni sulle presidenziali francesi in rapporto alla situazione italiana. Da un lato ci sono quelli che esaltano una competizione che costringe alla fine ad una scelta fra due e dunque compatta gli elettorati, che riescono a tenere insieme anche quelli che hanno dubbi su un certo candidato, ma ne hanno molti di più sull’altro. Sul fronte opposto ci sono quelli che invece sottolineano come la scelta obbligata a due penalizzi alla fine personalità che hanno raccolto quote importanti di voti al primo turno, in questo caso il leader della sinistra radicale Melenchon che aveva pur sempre un bel 30%.

Sono ragionamenti basati però sull’ignoranza della specificità delle elezioni presidenziali francesi. Per capirlo facciamo un parallelo con il nostro meccanismo di elezione dei sindaci. Anche in questo caso si possono avere coalizioni tenute insieme con la colla, per non dire con lo sputo, ma la differenza sostanziale è che il presidente francese ha poteri di governo direttamente in capo a lui, poteri che non deve condividere con altri, mentre i nostri sindaci devono poi governare tenendo conto delle componenti delle coalizioni che li hanno portati a vincere.

Per avere un sistema simile a quello francese dovremmo in Italia fare una riforma costituzionale che introduca il presidenzialismo (semi o intero che sia) con scelta popolare diretta. Qualcosa che al momento non è all’orizzonte e che comunque presenterebbe non poche difficoltà.

Concentriamoci dunque a valutare la crisi che attraversa quel bipolarismo bislacco che abbiamo cercato di introdurre dagli anni Novanta in poi soggiacendo al mito che il maggioritario consentiva più governabilità ed era in ogni caso più “moderno”. Non è funzionato un gran che ed oggi è andato definitivamente in crisi perché sono venuti meno i due pilastri che lo tenevano in piedi: da un lato Berlusconi che federava intorno a sé sulla destra, dall’altro il combinarsi delle classi dirigenti ex PCI con quelle ex sinistra DC, che, con alterni artifici retorici, mettevano in piedi il soggetto federatore sulla sinistra.

Oggi entrambe sono in dissoluzione. Berlusconi non è più pilastro di nulla e la destra si raccoglie attorno a due partiti, Lega e Fratelli d’Italia, che sono in competizione fra loro per decidere a chi spetti la leadership. La stella di Salvini, che ad un certo punto era sembrata sulla via di divenire stella polare, si è appannata non poco, rivelando la debolezza del personaggio. La sua concorrente, Giorgia Meloni, è più abile nel controllare l’eccesso di pulsioni demagogiche, ma per ora non rivela quella statura politica fuori del comune che è necessaria per imporsi su un arcipelago riottoso (e soprattutto guida un partito carente di classi dirigenti di spessore, cosa che non si può dire della Lega, anche se Salvini sta facendo di tutto per abbassarne la media imponendo suoi modesti candidati).

Nel centrosinistra non si riesce ad uscire dai condizionamenti di quella “fusione fredda” che ha dato vita al PD. Anche qui manca una leadership veramente carismatica, per cui tutto si svolge nell’ottica di tenere insieme alla rinfusa quante più correnti interne e quante più alleanze esterne possibile. Come sempre nella storia della sinistra italiana il problema è far convivere la tradizione del progressismo riformista con quella del massimalismo radicaleggiante. La prima è in difficoltà perché gestire riforme in un sistema scassato come quello italiano è un’impresa quasi disperata: basta vedere cosa sta succedendo con quelle legate al PNRR, che pure hanno il vantaggio di essere sostenute dalla prospettiva di avere così cospicui investimenti. Figurarsi fare quelle dove un simile avvallo non esiste.

Il massimalismo radicaleggiante si avvantaggia di un momento pieno di paure verso il futuro, per cui c’è più necessità di quello che in tempi andati si chiamava oppio dei popoli. Il populismo a Cinque Stelle, che tiene ancora abbastanza nonostante la figura più che mediocre che hanno fatto i suoi leader al governo, è solo la punta di un iceberg che raccoglie i contributi di tutti quelli che si illudono di essere “alternativi” a questo o a quello.

Il PD non sa decidersi a scegliere fra le due prospettive e si illude di potersela cavare tenendo insieme gli opposti con la favoletta del “campo largo”: peccato che i due opposti di stare nello stesso recinto non abbiamo molta voglia.

Lo stato di confusione in cui versa il bipolarismo italiano non andrebbe sottovalutato: se non si trova modo di rimettere ordine nella nostra geografia politica, e possibilmente di stabilizzare le sue componenti riformiste, non ci troveremo a nostro agio nella tempesta in cui si sta avventurando il mondo.

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