Suor Anna da Arco: “Apriamo i nostri conventi ai bisognosi”

Ulyana, Sergi, suor Anna e uno dei figli della coppia

Da oltre tre secoli – dal 1689 per la precisione – l’imponente cinta muraria custodisce il silenzio e la preghiera delle monache di clausura. L’unica distrazione, per chi volesse volgere lo sguardo oltre, è la vasta sommità del monte Stivo, che con i suoi duemila e oltre metri di quota riesce ad incunearsi nel cielo, rompendo la monotonia dell’orizzonte delimitato dalle mura.

“Dobbiamo aprire i conventi ai bisognosi”, afferma suor Anna Di Domenico, romana di nascita ma da 42 anni presenza fissa nel convento delle Servite di via Mantova ad Arco. Oggi una piccola comunità religiosa, quattro suore che mantengono viva una struttura che è anche e soprattutto un porto sicuro per anime inquiete in cerca di discernimento e pace.

“Qui vengono in tanti e noi li accogliamo. Coppie in difficoltà, intellettuali che devono staccare la spina o scrivere un libro, studenti che devono preparare un esame, uomini e donne in cerca di una strada per la propria esistenza, persone di altre fedi…”, spiega ancora la religiosa, presidente della Federazione delle Serve di Maria. Arrivano persone dunque, che attraverso il silenzio cercano di mettere ordine nei borbottii interiori e poi trovano un’altra medicina. Speciale, rara: l’ascolto. Ed è proprio suor Anna ad accogliere in lunghi colloqui le voci di un’umanità spesso ferita.

LE PORTE DEL CONVENTO SI SONO APERTE UN PO’DI PIU’

Ma non basta, perché da qualche tempo le porte di questo convento di clausura si sono aperte un po’ di più, rendendo vive le parole che papa Francesco pronunciò nel settembre del 2013: “I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”. In verità, una parte di questo convento è diventata davvero un albergo: “La struttura era troppo grande, ingestibile, così qualche anno fa abbiamo ceduto una porzione ed è stato realizzato un hotel”, spiega suor Anna.

Il resto è storia recente: “Ci siamo messe a disposizione per accogliere i rifugiati, ma un’opportunità vera è arrivata solo ad inizio anno grazie al Centro Astalli, che ci ha chiesto di ospitare una famiglia nigeriana”. Mamma, papà e tre bambini, uno dei quali ancora nel paese d’origine e per il quale sono state avviate le carte per il ricongiungimento familiare. Vivono in una porzione del convento trasformata in appartamento (e staccata dalla clausura), una convivenza serena con le quattro monache.

L’emergenza provocata dall’invasione russa in Ucraina non ha lasciato indifferenti le religiose di via Mantova, che ancora una volta si sono messe a disposizione tramite il Centro Astalli: “Sono arrivati il 14 aprile, giovedì santo: una famiglia dal Donbass, genitori, tre bambini e due gatti. I piccoli erano terrorizzati. Una famiglia che aveva una vita normale: vivevano in una villetta, da un giorno all’altro sono dovuti scappare”, spiega suor Anna. E un’altra porzione del convento è diventata la casa per questa famiglia. “La verità – spiega suor Anna – è che i conventi hanno una struttura adeguata per questo tipo di ospitalità, più che in una famiglia, dove magari la condivisione degli spazi può diventare motivo di difficoltà o conflitto. Per questo dico: apriamo i conventi a chi ne ha bisogno”, l’appello della religiosa.

“DALLE SUORE OSPITALITA’ BEN OLTRE LE NOSTRE ASPETTATIVE”

“Prima hanno colpito gli acquedotti, le linee elettriche e del gas, rendendo la città invivibile. Poi i russi hanno cominciato a bombardare le stazioni dei treni, dove le persone si ammassavano per scappare dalla guerra. Altro che obiettivi militari…”. Ulyana oggi ha ritrovato il sorriso – seppure carico di amarezza – e spiega: “Dalle suore abbiamo trovato un’ospitalità che va ben oltre le nostre aspettative”. Nel giardino del convento, dove hanno trovato casa anche i due gatti, la famiglia ucraina ha già cominciato a ricostruire un pezzo di quotidianità: un pezzo del prato ora è un ampio e ordinato orto curato ogni giorno dagli ospiti che vengono dall’est.

Con il marito Sergi, ingegnere minerario, Ulyana è scappata da Pokrovsk Donetsk, città di 75mila abitanti poco a nord di Donetsk, nel cuore del conflitto scatenato da Putin. Il loro viaggio della disperazione è cominciato il 5 aprile: “Ormai mancavano tutti i beni primari, comprese le medicine di cui ha bisogno mia madre. I miei tre bambini (6, 8 e 12 anni ndr) sono terrorizzati: dopo l’esperienza delle esplosioni, si spaventano per qualsiasi rumore. Siamo scappati all’inizio con la metro, per sfuggire alle bombe lanciate sulle linee ferroviarie, poi abbiamo camminato per giorni – racconta Ulyana – e siamo arrivati in Polonia”.

In Trentino, ammette, sono arrivati per caso: “Siamo saliti sul primo pullman che aveva cinque posti liberi. Era diretto in Italia, a Trento”. Per alcuni giorni sono stati ospitati nell’ostello del capoluogo, poi attraverso il Centro Astalli sono arrivati al convento delle Servite di Arco.

Ulyana ha già trovato un lavoro part-time nel vicino hotel, realizzato in un’ala del convento venduta negli anni scorsi. Ma la speranza è di tornare a casa: “Qui siamo stranieri in terra straniera – spiega – noi vorremmo tornare in Ucraina”. Tragedia nella tragedia, il conflitto ha disintegrato anche rapporti i familiari: “Abbiamo parenti in Russia – spiega la donna – ma da quando è scoppiata la guerra, le relazioni si sono interrotte. Quello che raccontano in Russia sul conflitto, è lontano dalla verità”. Secondo Ulyana, le ragioni che hanno spinto Putin a scatenare la guerra sono solo un pretesto: “A parte qualche anziano nostalgico dell’Unione sovietica – spiega – in Ucraina nessuno sente il bisogno di essere liberato. Quella di Putin è una guerra folle”.

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