2 giugno: la patria e i cieli di Zoderer

Per questa Festa della Repubblica il messaggio più stimolante ci viene dalla vita e dal pensiero di Joseph Zoderer, morto per una caduta nella sua casa di Brunico proprio alla vigilia del 2 giugno. Nato a Merano 86 anni fa, si definiva “scrittore di cultura austriaca e passaporto italiano”; la sua concezione cristallina di patria e di Heimat, dentro un’appartenenza europea e nella fratellanza universale, deve restare a lungo come un fondamento per i giovani della nostra regione.

Non solo a Bolzano, visto che Zoderer era l’autore altoatesino più tradotto nel mondo con dieci romanzi di successo, e non solo a Trento, dove era apprezzato per i titoli tradotti dall’editrice roveretana Nicolodi.

Chi lo incontrava nel suo nido pusterese di Terento, restava ammirato dal suo sguardo pacato e profondo, capace di tenere insieme l’intimità etnica con l’apertura al mondo.
Al Weberhof, il maso aggrappato sopra la Val Pusteria, il romanziere-contadino Joseph sembrava proteggere la sua identità di “scrittore di minoranza”, ancora robusta come quella stube annerita nei secoli dal fumo.

Eppure da lì scendeva spesso e volentieri a valle, da cittadino del mondo, per visitare il figlio architetto a Vienna o per tenere una conferenza negli Stati Uniti. Non rinunciava a parlare della Heimat, al centro del suo romanzo più celebre “Die Walsche – L’italiana” (storia d’amore bolzanina tra un giovane e una ragazza di madrelingua tedesca), ma lo faceva invitando a distinguere i termini per non ricadere in un concetto di patria storicamente divisivo, perché abusato e travisato. “C’è una Heimat del primo respiro – ci diceva – costituita dagli anni dell’infanzia, l’odore della cucina, la voce della mamma. Ma poi c’è l’Heimat che ci si sceglie, il luogo dove si sta a lungo perché si sono trovati gli amici, l’ambiente in cui si condividono curiosità e tristezza, in cui si gioisce insieme”.

La lezione di Zoderer è quella di amare il particolare e l’universale, non perdere le proprie radici, ma anche non chiudersi dentro l’orto di casa.
L’aveva appresa nella sua stessa vita, passando da “Il cielo sopra Merano” (un titolo legato alla sua infanzia), agli altri cieli della sua storia come Graz, Roma e Lisbona, allargandosi ai cieli sotto cui “ci sono fratelli e sorelle che soffrono”, diceva, rilevando che “abbiamo ben poca coscienza che c’è una maggioranza di umanità alla quale basterebbe un po’ della nostra acqua e della nostra farina”.

Aveva sperimentato le brutture della guerra, sperava di non doverne vedere un’altra sulle rive del Don. Si batteva contro la bugia del nazionalismo, che riteneva (forse ottimisticamente) “ormai smascherata e superata”. Era convinto che anche chi non aveva potuto studiare, doveva riconoscersi dentro una cultura europea, perché “lo stesso Manzoni si era nutrito di Goethe, come Shakespeare di Dante e si può dire che Moliere ormai è anche tedesco”.

Zoderer riversava anche nei suoi libri lo stupore con cui seguiva con gli occhi i cerbiatti mentre all’alba venivano a cercare le foglie più fresche al limitare del suo prato. Voleva essere attento “alle piccole cose che costituiscono la rete della nostra vita”, Joseph Zoderer è stato un intellettuale solitario ma non isolato, un interprete della comunità.

Aveva il buon senso del grillo parlante: “Sono molto critico – ci aveva detto a microfono spento – verso un benessere cresciuto senza essere accompagnato dalla crescita culturale. Purtroppo molte persone della nostra terra oggi restano vittime della società mediatica, dominata dalla pubblicità. hanno tanti appartamenti in più, ma hanno meno coscienza ambientale. Questi contadini di seconda o terza generazione oggi purtroppo sono portati a distruggere la vecchia stube, pur di avere una casa come quella che vedono dal parrucchiere sulle riviste patinate”.

Ma quando gli si chiedeva dell’impegno sociale degli intellettuali rispondeva così: “So bene che un mio libro non cambia il mondo, so di non scrivere verità assolute, ma mi basta aiutare un pochino gli altri a prendere coscienza del dono dell’esistenza, del nostro partecipare alla sofferenza e al miglioramento del mondo”.

Era il saluto col cappello a tesa larga prima di ritirarsi nel suo fienile, sotto le perline dove aveva appeso i foglietti con appunti per i prossimi libri, brandelli di ispirazione. Il suo pensatoio fertile, dove si riferiva volentieri a quel Dio che non conosce patrie “chiuse” e che abita tutti i cieli.

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